150°
anniversario dalla nascita di Grazia Deledda
L'ASSASSINO DEGLI ALBERI
Vivevano una volta ad Orune, fierissimo villaggio sardo posto su
un'alta montagna, e famoso per le sue inimicizie, due amici, uno povero e
l'altro benestante. Il povero si chiamava Martinu Selix, soprannominato Archibusata
(Archibugiata), forse perché usava moltissimo questa parola come intercalare.
Del resto non pareva d'istinti feroci, e l'archibugio egli non poteva usarlo,
perché era tanto povero da non potersene procurare uno col relativo porto
d'arma. Faceva il contadino, seminava molto grano, era giovine, forte, di
colorito acceso, con nerissimi occhi torvi e sospettosi. Sarvatore Jacobbe, il
benestante, era invece una specie di piccolo possidente, vestito in costume, ma
con giacca di velluto. Aveva tratti signorili, e quando viaggiava portava la
polveriera attaccata a un grosso cordone di seta nera. Possedeva bestiame,
cavalli, cani, due servi, un gran tratto di terreno piantato a vecchi ulivi ed
olivastri; aveva una bella sorella e molta presunzione. Tutti dicevano: -
Martinu Selix si crede qualche cosa perché va in compagnia di Sarvatore
Jacobbe. Si crede forse che gli dà la sorella per isposa! Ma Archibusata non ci
pensava neppure. Faceva dei servizi delicati all'amico; qualche volta, quando
questo era a Nuoro, per affari, o si trovava occupatissimo per le elezioni,
Martinu andava all'ovile, guardava se il servo pastore faceva il suo dovere, se
le cose andavano bene, e infine rendeva cento altri piccoli servigi. Egli non
ne provava alcuna umiliazione, sebbene la bella Paska lo riguardasse quasi come
un servo, e lo mettesse spesso in caricatura.
Le donne d'Orune sono belle, superbe, strane, argute, dotate di
selvaggia intelligenza. Parlano in modo meraviglioso, un linguaggio caldo,
arguto, pieno di immagini fantasiose; fingono entusiasmo, ira, meraviglia per
molte cose; hanno camicie ricamate, corsetti gialli, occhi profondi e bui come
la notte. Ballano volentieri, siedono per terra all'orientale, e implorano
terribilmente vendetta dal cielo contro le terrene offese. Il padre di Paska e
di Sarvatore, per esempio, era morto in reclusione, condannato, Dio ci liberi,
per omicidio. I figliuoli naturalmente dicevano ch'egli era innocente, e ogni
anno Paska, per il funereo anniversario rinnovava la ria, piangendo,
strappandosi la cuffia, cantando funebri versi estemporanei: inoltre mandava
uno scudo a Nostra Signora di Valverde perch'Ella castigasse tremendamente
coloro che testimoniando il falso avevano fatto condannare il defunto. Paska
era ambiziosa e presuntuosa quanto il fratello. Da bambina, secondo il costume
del paese, era stata fidanzata ad un uomo tanto ricco quanto maturo. Venuto
però in bassa fortuna il fidanzato, la maliziosa bimba non aveva più voluto
sentir parlare di matrimonio. Ora chi sa ciò che ella sognava, quando seduta
sui calcagni, sul lucido pavimento della chiesa, agitava lievemente le labbra
di melograno, con gli occhioni smarriti in alto, tra i rozzi affreschi della
volta. Era alta e flessuosa, con un rigido profilo bronzino. Sembrava una
madonna di bronzo. Gli uomini anche i più benestanti temevano farle la corte:
figuriamoci quindi se Martinu Selix osasse neppure guardarla in viso. Egli non
lo diceva, ma le era anzi antipatica. Come tutte le donne benestanti di Orune,
paese dedito alla pastorizia, Paska sapeva fare a perfezione i formaggelli, il
burro, sas tabeddas, le treccie e tante altre cose che si plasmano col
formaggio di vacca passato al fuoco. Ora, un giorno Martinu la trovò seduta per
terra, accanto al focolare, facendo formaggelli. Per un po' stette a guardarla
freddamente, tossendo e raschiando con famigliarità; poi, non sapendo cosa altro
dire, si provò a criticarla sul modo con cui ella terminava i formaggelli,
indugiandosi cioè a intagliare o un pulcino o una lepre nella loro estremità. -
E via, date un colpo così e così, e lasciate di perder tempo a far quelle
minchionerie, ché tanto tutto vien masticato! - egli disse. Ella arrossì e
rispose superbamente: - Cosa ve ne intendete voi? Già! Dalla esperienza fatta
sul vostro formaggio! Allora toccò a Martinu arrossire. Con quelle parole Paska
gli buttava in faccia la sua povertà. - Archibugiata! - gridò fra sé. - Se
un'altra volta mi parla così la prendo a schiaffi, com'è vero Cristo! E se ne
andò offeso e mortificato. Ora avvenne che Sarvatore pensò d'innestare tutti
gli ulivastri e i vecchi ulivi del suo incolto chiuso. Voleva farne un bel
podere. Era nella vallata dell'Isalle, vicino a questo fiume, un luogo
ubertosissimo e bello quanto mai. Sarvatore fece le cose nel modo splendido con
cui i possidenti del Nuorese usano far l'innestatura. Invitò cioè tutti i suoi
amici contadini e gli uomini più capaci d'innestare. Tutti prestano gratis
l'opera loro, ma in ricambio godono una bellissima giornata, piena di canti e
di pasti abbondanti: più che giorno di fatica può dirsi una festa bucolica, nel
doppio senso della parola. Anche i pastori prendono parte alla cerimonia; e un
poeta latino, - dato n'esistesse ancor uno, - potrebbe trarre una amenissima
egloga da questa festa. Nel giorno convenuto gli amici di Sarvatore Jacobbe
vennero tutti al chiuso, a cavallo, con donne in groppa. E vennero i pastori
del padrone, con pecore ancor vive stupidamente legate alla sella, e formaggio
fresco entro le bisaccie. In breve i fuochi furono accesi sotto i vecchi ulivi
grigi e il fumo salì in gloriose colonne su per l'aria profondamente azzurra.
Maggio rideva nella valle: i cavalli frangevano con le loro corse le altissime
erbe, i grani ondulavano argentei in lontananza, gli oleandri curvavano sulle
acque verdi del fiume i ciuffi dei loro bottoni di cupo corallo. E calde
fragranze passavano con la brezza. I pastori facevano un po' di tutto. Aprirono
qualche alveare, traendone il miele caldo e giallo come oro liquefatto:
scannarono le pecore, le scuoiarono, tirandone giù la pelle che si separava
azzurrognola dal corpo roseo ed ignudo delle bestie; cucinarono i sanguinacci
fra la cenere ardente, e arrostirono le carni su lunghi spiedi di legno,
scherzando e ridendo con le donne che li aiutavano. Paska era naturalmente la
regina della festa. Le altre donne, che le stavano intorno come ancelle, non le
lasciavano far nulla; ma ella presiedeva, con l'alta persona bizantina che ogni
tanto fremeva come gli esili giunchi del fiume. E un po' sparsi da per tutto, i
contadini segavano attenti, quasi con religione, i contorti ulivastri ed i
vecchi olivi. Pietro Maria Pinnedda, il famoso innestatore, andava da un gruppo
all'altro, guardando coi suoi grandi occhi grigi e maligni. Il suo volto era
acceso; un principio di barba gialla gli dorava le guancie. Infilzata la marza
sul tronco reciso, giallo e fresco, lo si attorcigliava strettamente con un
tralcio di vincastro; poi lo si ricopriva di terriccio impastato, sul quale il
fiero dito di Pietro Maria, dopo aver ben palpato e premuto intorno alla marza,
segnava una croce, augurio e preghiera di buona riuscita. Alla marza infine
s'infilava un piccolo triangolo di foglia di fico d'India, fresco cappuccio
contro gl'incipienti e fecondi ardori del sole. Così d'albero in albero, le
chiome selvaggie degli ulivastri rotolavano sulle alte erbe fiorite, e
gl'innestatori parlavano di banditi, di negozî, d'alberi, di donne e di storie
passate. Salivano le alte voci sonore, qualche canto bizzarro, che sembrava il
grido selvaggio di un'anima che piangeva cantando, svaniva lontano, fra gli
alberi, sotto i quali l'erba serbava una larga ruota di frescura più intensa;
svaniva nei silenzi della valle, nel fiume, al di là del fiume. E le zucche
arabescate, colme di vino rosso, circolavano, riscaldando vieppiù il sangue di
quei fieri uomini dai denti splendidissimi, dalle vesti aspre e scure. Martinu
Selix prestava a tutti aiuto: rideva mostrando tutti i suoi denti stretti,
sembrava felice: pareva il sopraintendente di Sarvatore, il quale non faceva
nulla, con le mani incrociate sulla schiena e il volto sorridente. Qualcuno
degli invitati restava urtato dai modi troppo padronali del Selix: specialmente
Pretu-Maria Pinnedda lo fissava spesso con uno sguardo metallico e iroso.
Il giovinotto rosso dai grandi occhi grigi e maligni era innamorato di
Paska, e provava gelosia dell'amicizia che Sarvatore concedeva al Selix. L'aria
di padronanza presa in quel giorno da Martinu lo urtava più che mai, e per
urtare Pretu-Maria bastava un soffio d'aria. Già due volte s'eran dette parole
aspre, causa il modo di stringer il vincastro. Martinu diceva: - Non occorre stringerlo
molto. E l'altro asseriva il contrario. Parlando di Paska, un momento che
Sarvatore era lontano, uno disse scherzando, non senza ironia: - La mariteremo
a Martinu Selix. - Archibugiata! - egli rispose con un fiero lampo negli occhi.
- Ti pare una cosa impossibile? - Archibugiata - disse l'altro. - Tutto è
possibile in questo mondo. Martinu scrollò le spalle come per dire: - Se
volessi! Pretu-Maria arrossì di collera, ma non disse nulla perché l'argomento
gli cuoceva troppo, e capiva che parlavano così in sua presenza per farlo
stizzire. - Se voi siete furbi come l'aquila, io lo sono come la volpe! -
pensò. Ma un momento prima del pranzo, non sapendo come meglio rinnovar a Paska
le sue dichiarazioni, le disse con finta amarezza: - Ora so perché non mi
volete. - Perché, avoltoio senza barba? - chiese ella, degnandosi di guardarlo.
- Perché avete idea di pigliarvi Martinu Selix. Ella gettò un acuto grido, uno
di quei caratteristici gridi che solo le donne d'Orune sanno fare. - Chi ve
l'ha detto? - Lui stesso. - Menzogna. - Che mi sparino se non è vero! E ripeté
il dialogo, aggiungendovi qualche cosa di suo. Paska si fé buia in volto, e fu
per strapparsi la cuffia in segno di umiliazione e di dispetto. Soddisfatto
discretamente, Pretu-Maria la pregò di tacere, di non far scandalo; ma ella,
irritata sul serio, prese a dileggiare apertamente Martinu anche durante il
pranzo. Seduti in circolo, per terra, i convitati mangiavano su taglieri di
legno e su pezzi di sughero: per posata portavano i coltelli affilati e niente
altro. Più che il vino, il miele, raffreddatosi ma non del tutto, condiva il
pranzo, in esso immergevano le bianche fette del formaggio fresco, il
formaggello arrostito, le lattughe, il pane e persino la carne. Molti lo
mangiavano senz'altro, succhiandone tutta la dolcezza e sputando lontano la
cera masticata. Allegri discorsi guizzavano da un capo all'altro; risate sonore
vibravano nel rezzo dei vecchi ulivi. A nord e ad oriente le montagne azzurre
sfumavano nel dilagare azzurro del fulgido meriggio. A un tratto tutta
l'allegria cessò: una maligna nuvola passò sul lieto convito. Paska diceva,
rivolta a Martinu:
- Lo vedete il conte d'Artea, che vuole una dama per moglie! Peccato
che ad Orune non ce ne sia! Martinu, che finora aveva risposto con calma agli
scherzi salati di Paska, finì con l'irritarsi, tanto più che il vino lo rendeva
più ardente e sospettoso del solito. - Lasciami in pace, Paska, che io non ti
sto cercando. Lo so bene che sono un mendicante, ma una donna migliore di te
posso ben trovarla. - Eh, sicuro! Nostra Signora di Valverde ci aiuti! Donne
come me tu non ne vuoi. Le vuoi... come te stesso... - E chi sei tu? Perché hai
due soldi da spenderti? Archibugiata! Ma sta attenta: il mondo è una scala.
Chissà che i figli miei non possano far l'elemosina ai tuoi! Paska diventò
rossa come lo scarlatto che orlava la sua gonnella. Disse: - Per ora posso
farla io a te! Martinu sbatté a terra, violentemente, una piccola tazza di
latta piena di vino, che teneva fra le mani, e gridò un insulto contro la
fanciulla. - Martinu! - urlò Sarvatore. - Non m'importa nulla di te! E di
nessuno m'importa! - gridò Martinu, con gli occhi verdi per l'ira. - Siete
tanti cani rognosi! Non dipendo da te, Sarvatore Jacobbe, e forse tu dipendi
più da me, che io da te. Non ti devo nulla! Non ti devo né pane né grano né
denaro; e tua sorella può far a meno di rinfacciarmi la mia povertà. Povertà
non è viltà, Sarvatore Jacobbe, povertà non è viltà. Ma se credi che la mia
amicizia possa farti disonore, posso ben... - Tu sei ubbriaco. - Ubbriaco sei
tu. - Rognoso! - Rognoso sei tu. Basta; ne nacque una disputa fierissima, e per
poco macchie di sangue non s'unirono alle chiazze del vino che profanavano
l'erba. I due amici si rinfacciarono cose fino allora ignorate dagli astanti; e
le loro fronti arsero di rossore, non si sa se più per la collera o per la
vergogna. Le donne strillavano. Bianca per terrore, Paska si pentiva delle sue
parole, e con modi insinuanti cercava smorzare il fuoco da lei acceso. E il
fuoco fu spento; gli amici parvero anzi riconciliarsi, e Martinu, che voleva
andarsene, rattenuto a viva forza, rimase; ma non alzò più i suoi torvi occhi
sul volto di Sarvatore; e questo se ne stette in un canto, sinceramente
mortificato per lo scandalo dato. Si riprese a innestare. Pretu-Maria aveva
l'aria d'un uomo vittorioso; ma anche Martinu rideva di tanto in tanto,
forzatamente, a misura che i tronchi innestati venivano marcati col segno della
croce. Due giorni dopo Martinu Selix partì per la festa di San Francesco di
Lula. Partì sul far della sera, a piedi, a testa nuda: così era il suo voto. La
notte lo colse in viaggio: allora il pellegrino cambiò direzione e invece di
proseguire verso San Francesco, scese verso l'Isalle e s'appostò fra gli
oleandri. A notte alta, mentre la sacra rugiada del cielo pioveva sulla
dormiente natura, e l'acqua del fiume rabbrividente rifletteva la gran pace
arcana della luna al tramonto, e più distinti salivano i profumi dei giunchi, Archibusata
compié la sua terribile vendetta senz'arma. Strappò le marze dagli alberi
innestati con tanta cura e religione. Ma nel rivarcare il muro, un uomo gli si
rizzò inesorabile davanti; e nel pallido albore lunare brillò la canna d'un
fucile. - Io lo sapevo, faina maligna! - gridò Sarvatore Jacobbe. - Ora potrei
ammazzarti come un cane, ma ti farò qualcosa di peggio. Tre uomini uscirono dai
roveti. - Voi avete veduto - disse loro Sarvatore. - Questo pellegrino noi non
lo uccideremo, non è vero, e non lo denunzieremo neppure, non è vero? Martinu
Selix, tu mi servirai gratis, tu mi farai il servo per altrettante
settimane quanti alberi hai assassinato. La strana sentenza echeggiò potente
nella gran pace rorida della valle. Martinu Selix proseguì il suo
pellegrinaggio; ma al ritorno entrò come servo in casa dei superbi Jacobbe, e
per tre anni subì il suo castigo morale e materiale.