Articolo di Gorgio Comai.
In questa riflessione, non parlerò delle dinamiche immediate del
conflitto, della tragedia umana e umanitaria in corso, né tratterò di soluzioni
per il breve periodo. Piuttosto, cercherò di offrire alcuni spunti per
comprendere e interpretare quanto sta avvenendo, ragionando sul perché si è
arrivati a questa guerra, su cosa le dinamiche che hanno portato all’inizio di
questa guerra ci possono dire riguardo ai prossimi mesi, e sugli aspetti che
trovo preoccupanti cercando di immaginare scenari di medio periodo.
In questo percorso, parlerò più della Russia che dell’Ucraina. Perché
se è vero che la guerra si sta combattendo sul suolo ucraino e a scapito della
popolazione ucraina, è a Mosca che si è deciso di iniziare la guerra. Ed è da
qui che voglio iniziare: dagli obiettivi che la parte russa si è prefissata fin
dall’inizio dell’intervento militare in Ucraina.
Tra gli obiettivi diretti più espliciti, evidenzio in particolare la
“denazificazione” dell’Ucraina (questo il termine utilizzato da Mosca), la
demilitarizzazione dell’Ucraina, e la difesa della popolazione del Donbas. Mi
limito agli obiettivi diretti, e non approfondisco motivazioni politiche più
ampie addotte nei mesi scorsi dal Cremlino, come ad esempio l’idea di
contrastare l’avanzamento della Nato in Europa centro-orientale, anche perché
sostanzialmente incompatibili con il percorso interventista scelto: a maggior
ragione se l’invasione si fosse rivelata il grande successo auspicato da Mosca,
sembra ovvio che questa avrebbe portato a un rafforzamento della Nato nei paesi
limitrofi, non certo a una demilitarizzazione della regione. L’eventualità di
un riarmo della Nato sul fronte orientale era presumibilmente ritenuta un
effetto collaterale accettabile in cambio di un intervento di successo in
Ucraina.
Nei primi giorni dell’invasione, la tutela della popolazione del
Donbas era regolarmente presentata come motivazione principale dell’intervento
sui principali canali televisivi russi. Si parlava infatti costantemente di
“operazione militare speciale per la difesa della popolazione del Donbas” e la
retorica dominante era quella da “guerra umanitaria”. Nonostante il grande
sforzo mediatico dedicato a promuovere questo aspetto, anche solo considerando
il fatto che gran parte dell’avanzata militare russa nelle prime settimane ha
avuto luogo a centinaia di chilometri di distanza dal Donbas, pare poco
credibile che questo fosse effettivamente il principale obiettivo diretto
dell’invasione.
Il secondo obiettivo dichiarato è quello di più difficile
interpretazione visto da fuori della Russia, ma è quello che secondo me si può
ritenere a tutti gli effetti l’obiettivo diretto principale che ha portato
all’invasione, ovvero, la “denazificazione” dell’Ucraina, con tutto ciò che questo
comporta.
Chi sono i “nazisti”?
Commentando l’idea di “denazificazione”, o della presenza di “nazisti”
al governo in Ucraina - questa l’accusa russa - la reazione tipica è quella di
cercare di ragionare sulle forze di estrema destra o sull’antisemitismo in
Ucraina. C’è ad esempio chi sottolinea che con l’eccezione di una breve fase
successiva alla guerra del 2014, l’estrema destra in Ucraina non è mai stata
eccezionalmente influente, e da tanti punti di vista è più marginalizzata che
in tanti paesi d’Europa. Oppure si dibatte di figure storiche problematiche,
come Stepan Bandera, spesso più celebrate che condannate nell’Ucraina di oggi.
Si tratta di dibattiti legittimi, ma, nel contesto dell’invasione,
effettivamente irrilevanti, perché partono da un fraintendimento su cosa
effettivamente voglia dire “nazista” in Russia oggi, un fraintendimento che
scaturisce da una diversa memoria della Seconda guerra mondiale e da una
diversa interpretazione di cosa rappresenta la fine di quella guerra.
In Russia, la Seconda guerra mondiale, ricordata come “grande guerra
patria”, non è ricordata principalmente per l’Olocausto o per le politiche
repressive di fascisti e nazisti, ma prima di tutto come una guerra contro
l’Unione sovietica, contro la Russia. In Russia, la Seconda guerra mondiale non
è stata quindi prima di tutto una guerra contro il totalitarismo (e come
potrebbe esserlo, visto che la vittoriosa URSS era guidata da Stalin), o una
guerra che ha avuto tra le vittime più riconoscibili gli ebrei d’Europa… prima
di tutto, è stata una guerra contro l’URSS. Se nella storiografia sovietica si
insisteva anche sull’elemento ideologico (una guerra contro il comunismo),
questa tendenza è evidentemente andata a sparire nel periodo post-sovietico. A
differenza di come è ricordata in gran parte d’Europa, la Seconda guerra
mondiale in Russia, ovvero, la “grande guerra patria” è iniziata nel 1941: ad
oggi, è raccontata come una guerra contro l’URSS, contro i russi, per
distruggere la Russia.
“Nazista” oggi significa quindi in primo luogo “anti-russo”, in una
linea interpretativa che evidenzia orgogliosamente la continuità tra URSS e
Russia, insistendo in particolare sulla Russia come forza principale che ha
sconfitto il nazismo in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Se ci sia o
non ci sia l’estrema destra in Ucraina non è rilevante da parte russa, anzi,
come è noto, la vicinanza politica tra la leadership russa e varie espressioni
di forze di estrema destra in Europa e negli Stati Uniti è stata in passato del
tutto esplicita, e parzialmente rinnegata da noti esponenti di partiti di
estrema destra solo molto recentemente. Una certa sintonia su varie questioni
evidentemente rimane.
Un altro termine percepito come contiguo, anche per assonanza, è
quella tra “nazi” e “nazionalista”. Sulle televisioni russe, ad esempio, in
riferimento alla leadership o all’esercito ucraino si utilizzano espressioni
come “bande di nazionalisti”. Ma da parte russa, il nazionalismo ucraino è
problematico solo nella misura in cui è percepito come “anti-russo”: non è
infatti problematica la destra nazionalista di Orbán in Ungheria, né quella di
Le Pen in Francia. Ciò che è rilevante è la misura in cui queste forze
nazionaliste siano percepite come “anti-russe”.
Cosa vuol dire essere “anti-russo”?
Nella logica avanzata da Putin nei suoi recenti interventi a tema storico,
immaginare una nazione ucraina separata dalla Russia vuol dire essere
“anti-russo”, vuol dire voler spezzare la presunta unità dei popoli slavi
legati alla Rus’ storica: russi, bielorussi, e ucraini. In questa chiave di
lettura, “anti-russo”, e quindi “nazi”, non è solo chi si potrebbe definire un
nazionalista in Ucraina, ma in sostanza chiunque creda che l’Ucraina - come
stato e come popolo che vi abita - non sia parte indissolubile della Russia,
non sia parte del popolo russo. Con queste premesse è possibile capire perché
da parte russa si insista su come il governo ucraino sia in mano a nazisti e
che l’Ucraina sia piena di nazisti e abbia bisogno di essere “denazificata”.
Questa narrativa, e più in generale la presunta onnipresenza di
nazisti in Ucraina, suscita certo perplessità anche tra la popolazione russa.
Secondo un’inchiesta pubblicata dal media investigativo russo Proekt infatti,
sondaggi effettuati su richiesta del Cremlino nell’aprile di quest’anno per
verificare l’efficacia della comunicazione sulla guerra avrebbero rivelato che
l’insistenza sulla “denazificazione” era fonte di incomprensione nel pubblico
russo. Il termine è quindi ora meno utilizzato nei media russi, ma rimane
nondimeno espressione diretta delle fondamenta ideologiche che hanno portato a
questa guerra.
Mi sono dilungato su questo aspetto, per evidenziare come alcune delle
dinamiche che hanno portato a questa guerra abbiano bisogno di una traduzione
concettuale, più che letterale. Partendo da queste premesse, possiamo però
capire come l’Ucraina, l’identità ucraina, l’esistenza di un’identità ucraina,
sia effettivamente la questione principale diretta che ha portato a questa
guerra. Dal punto di vista del Cremlino, nell’ottica di questa guerra, Nato e
Unione europea sono un problema principalmente perché rappresentano strade che
portano ad un’Ucraina meno “russa”, meno parte del mondo russo. La minaccia non
è quindi evidentemente militare – anche nell’immaginario più paranoico, è
difficile ritenere che le repubbliche baltiche o la stessa Ucraina possano un
giorno decidere di invadere la Russia - ma in primo luogo identitaria.
C’è ovviamente spazio per ragionamenti più ampi sull’architettura
della sicurezza europea, e certo anche per criticare alcune delle politiche dei
governi occidentali, l’allargamento della NATO, cose fatte o dette,
l’ipocrisia, le mezze promesse, ma tutto questo è, di per sé, poco utile per
spiegare o capire gli eventi di questi mesi.
Se ci sono responsabilità di lungo periodo da parte occidentale,
ritengo che queste siano di carattere meno diretto e riguardino in particolare
gli eventi che hanno portato al fallimento della transizione economica e
politica negli anni Novanta in Russia, nonché alcune delle dinamiche che hanno
portato al rafforzamento di un regime autoritario in Russia negli anni
successivi. Si può anche ricordare il ruolo che vari attori in Europa – in modo
più evidente il Regno Unito, ma non solo - hanno avuto nel favorire il
reinvestimento in Europa di grandi capitali emersi da corruzione e clientelismo
in Russia: un’appropriazione criminale su ampia scala effettuata con il
favoreggiamento di entità europee che ha contribuito ha solidificare il sistema
di governo di Putin e a impoverire il paese.
Su questi aspetti torno tra poco.
Prima di procedere, voglio però condividere qualche riflessione sul
ruolo del presidente della Federazione russa, Vladimir Putin.
Putin, e perché l’invasione era
necessaria e urgente.
Per tanti anni, chi si occupa di Russia si è ritrovato ad insistere
sull’importanza di pensare alla Federazione russa senza concentrarsi sempre e
solo su Putin, oggetto di un’ossessione mediatica straordinaria. Eppure, in
questa fase, è innegabile il ruolo determinante del presidente russo, e più in
generale il fatto che l’invasione dell’Ucraina sia stata pensata e fortemente
voluta da Putin stesso.
Si è molto parlato dell’isolamento di Putin anche dai suoi alleati più
stretti in quest’ultimo paio d’anni, in particolare a partire dall’inizio della
pandemia. C’è chi dice che Putin non sappia davvero cosa accade, perché si è
circondato di persone che vogliono solo assecondarlo, ed in parte probabilmente
è vero. Clientelismo, corruzione, e repressione, non sono certo gli ingredienti
migliori per avere un processo decisionale funzionale o informazioni oneste
sullo stato delle cose.
Ma non è solo questo il problema. Come ha ripetutamente dichiarato lui
stesso, Putin è ricorso a misure estreme perché è convinto di dover salvare la
nazione russa da una minaccia imminente e di tipo esistenziale. Già nel 2021
spiegava in un suo intervento come “la formazione di uno stato
ucraino etnicamente puro, aggressivo nei confronti della Russia, è comparabile
nelle sue conseguenze all'impiego di armi di distruzione di massa contro di
noi”. Esternazioni di questo tenore sono apparse di nuovo nei giorni che hanno
segnato l’inizio dell’invasione.
Anche se non l’ha detto esplicitamente, pare evidente che sia convinto
di essere l’unica persona in grado di salvare la nazione russa da questa
minaccia, e che senta di non potersi fidare neppure delle persone del suo
entourage, tra cui si annoverano a suo avviso ingenui affascinati
dall’Occidente o persone che non hanno il coraggio di fare ciò di cui vi è
bisogno. In definitiva persone che in buona parte non sentono l’urgenza e la
dimensione storica del rischio, o che non lo percepiscono come esistenziale.
Non si rendono conto che la Russia sta perdendo l’Ucraina, e che l’unità del
popolo russo è quindi fondamentalmente minacciata.
Chi ha deciso “bisogna invadere ora”, è stato Vladimir Putin. E l’ha
deciso, sapendo che la maggior parte delle persone intorno a lui non la
consideravano neppure come un’opzione. Fino a pochi giorni prima
dell’invasione, non solo membri del governo, ma come è poi emerso da
intercettazioni, anche gran parte dell’esercito stesso non era conscia che
stava effettivamente per entrare in guerra. È stata preferita la segretezza
alla preparazione – come è emerso anche nelle prime settimane di guerra, quando
è apparsa impietosamente evidente l’impreparazione logistica dell’esercito
russo.
È anche perché sa di avere attorno a sé persone che non sentono
l’urgenza di questa sua missione che Putin si ritiene insostituibile, e che
ritiene di avere una missione storica da completare prima che sia troppo tardi.
Per ragionare e concentrarsi sul suo lascito storico in questi ultimi anni
Putin ha in buona parte trascurato la gestione di dinamiche interne, che a
quanto pare sempre meno lo interessavano – in netto contrasto con i primi anni
della sua presidenza.
In pratica, ed a prescindere degli sviluppi dei prossimi mesi, è chiaro
che le azioni di queste settimane ottengono l’esatto contrario di ciò che si
proponevano di fare: un’identità nazionale ucraina più forte, basata ora sì,
plausibilmente, su basi più esplicitamente anti-russe; una rimilitarizzazione
dell’Europa centro-occidentale, che torna a vedere ad est la minaccia più
immediata, in parte rivedendo politiche di difesa che erano sempre più mirate
al terrorismo internazionale; una rinnovata legittimazione della Nato; infine,
un crollo economico in Russia che, da molti punti di vista, elimina quello che
storicamente è stato il più grande elemento di legittimazione interna di Putin:
il superamento della miseria economica e sociale degli anni Novanta, e la sua
presunta capacità di offrire stabilità e progressiva crescita economica.
Al di là del fallimento delle politiche di Putin – non solo negli
ultimi mesi, ma almeno nell’ultimo decennio, comunque le si voglia misurare –
se si accettano le premesse di cui sopra, probabilmente gli eventi di queste
settimane rafforzano più che smentire le convinzioni di Putin: davvero c’era
urgenza di intervenire, e anzi, quanto avvenuto in queste settimane dimostra
che effettivamente era già troppo tardi. Davvero l’Occidente era intento a
spaccare e indebolire la nazione russa, utilizzando strumentalmente l’Ucraina a
questo scopo.
Delineo queste premesse, per quanto insostenibili, perché purtroppo
credo siano parte importante del perché c’è questa guerra, e del perché rimane
difficile, quasi impossibile, immaginare negoziati funzionali a partire da
queste premesse. E perché evidenziano una causa ancor più diretta della guerra
in Ucraina, quella che a tutti gli effetti ritengo la causa principale di
questa guerra: l’autoritarismo in Russia.
Una Russia anche solo un po’ meno autoritaria del paese che ha Putin
per presidente nel 2022 non avrebbe lanciato un’invasione dell’Ucraina.
Autoritarismo in Russia e
responsabilità dell’Occidente.
Se la causa principale di questa guerra è l’autoritarismo in Russia, è
quindi a maggior ragione importante capire come si è arrivati all’attuale
livello di autoritarismo in Russia, e quali sono gli elementi di legittimità
che hanno permesso a Putin di consolidare il suo potere, permettendo che quello
che era un sistema ibrido durante gli anni 2000 diventasse sempre più un
sistema semi-autoritario, e poi pienamente autoritario.
Come accennato poco fa, la promessa di superare la miseria economica e
sociale degli anni Novanta e di garantire stabilità e progressiva crescita
economica, è stato il principale elemento che ha fornito legittimità al governo
di Putin, e che continua ad essere utilizzato anche ad oltre vent’anni di
distanza da quegli anni che hanno così profondamente caratterizzato la
narrativa dominante sugli sviluppi della Russia post-sovietica.
In quale misura il relativo benessere degli anni 2000 sia
effettivamente attribuibile a Putin è oggetto di discussione, anche
considerando il fatto che le risorse economiche che hanno determinato quella
fase di crescita sono emerse da dinamiche congiunturali relative al prezzo
degli idrocarburi che hanno ben poco a che fare con chi sedeva al Cremlino. Ciò
che è certo, è che effettivamente gli anni Novanta sono stati anni di grande
miseria in Russia, anni durante i quali l’aspettativa di vita è crollata
bruscamente e la parte di popolazione che viveva in povertà estrema si è
moltiplicata. Anni in cui l’Occidente ha sostanzialmente sostenuto e promosso
le politiche che hanno determinato questi sviluppi.
In molti infatti credevano davvero che la cosa più urgente ed
importante fosse introdurre un’economia di mercato, non importa a quale costo,
perché un’economia di mercato avrebbe impedito il ritorno del Partito comunista
al potere, e, nel lungo periodo, avrebbe portato inevitabilmente alla
democrazia. Altri probabilmente erano lieti di vedere una Russia indebolita, e
quindi apparentemente meno minacciosa. Ad altri ancora, semplicemente, la
questione non pareva urgente: l’Urss era finita, e la Russia non era più un
problema.
Questo però ha avuto conseguenze. Perché il fallimento della
transizione economica ha contribuito in modo determinante al fallimento della
transizione politica. I “democratici”/“europeisti”/“filo-occidentali” sono
rimasti associati alla miseria e alle umiliazioni degli anni Novanta. Si è
quindi lasciato che la Russia, il più grande paese europeo, cadesse in rovina,
creando il contesto per un revanscismo anti-occidentale e autoritario di cui
vediamo oggi le tragiche conseguenze. Non era un processo inevitabile, ma a
questo si è arrivati. Se vogliamo quindi ragionare su responsabilità
occidentali di lungo periodo – e magari cercare nel passato recente spunti di
riflessione per il futuro – ritengo che questa sia la più importante: non
impegnarsi negli anni Novanta perché la Russia potesse avere una transizione economica
e sociale dignitosa.
Scenari e prospettive.
Riparto da questo aspetto per tornare al presente. Ho delineato quali
ritengo siano le principali cause dirette e indirette dell’attuale guerra. Da
una parte, un’ossessione identitaria nel Cremlino che vede Ucraina (e
Bielorussia) come parte inseparabile della nazione russa, e che individua
nell’Occidente un nemico che sostiene determinate politiche in Ucraina (e
Bielorussia) con il principale scopo di indebolire la Russia stessa. In questo
senso la Russia, la nazione russa, in prospettiva storica, sarebbe vittima di
un attacco di tipo esistenziale: per questo la Russia era minacciata, non si
poteva attendere oltre, e quindi non c’era alternativa alla guerra.
In secondo luogo, l’autoritarismo in Russia, emerso e consolidatosi in
parte in reazione a diffusa miseria e malessere sociale degli anni Novanta,
rafforzatosi sulla base di un’equivalenza tra umiliazione personale e
nazionale, e sull’identificazione dell’Occidente come principale causa sia
della miseria che dell’umiliazione, riprendendo quindi un immaginario radicato
anche in epoca sovietica per cui l’Occidente è costantemente intento a
indebolire, se non proprio a distruggere, la Russia. I connotati ideologici di
questo scontro sono nel frattempo spariti, solo in parte sostituiti da una
retorica “conservatrice” e omofoba che presenta la Russia come un baluardo
contro un Occidente depravato.
Partendo da queste considerazioni, condivido qualche riflessione sulle
prospettive dei prossimi mesi e anni, e su alcuni aspetti che dovrebbero essere
tenuti in considerazione in ottica di medio periodo.
È giusto auspicare che la guerra finisca al più presto, ad un tavolo
negoziale, con la firma di un accordo di pace. Purtroppo, non vi è ancora
traccia di effettivi negoziati, né è facile immaginarli nel breve periodo. Nei
media russi ancora non vi è traccia di uno sforzo per definire un risultato,
dal punto di vista politico e territoriale, che possa essere ritenuto soddisfacente;
gli obiettivi non sono cambiati, e nella retorica pubblica per ora non si
lascia spazio a voci favorevoli a qualsivoglia forma di compromesso. Anche
lasciando da parte le richieste iniziali di “denazificazione” da parte russa,
ammettendo un’apertura ucraina ad escludere un proprio ingresso nella Nato e –
pur senza rinunciarvi formalmente – non esigere come condizione preliminare per
un accordo la ritirata russa da Crimea ed aree controllate in Donbas prima
dell’inizio delle ostilità nel febbraio di quest’anno, le posizioni continuano
ad apparire distanti e inconciliabili.
È difficile immaginare come da parte ucraina si possa concedere sul
tavolo negoziale il controllo di ampie aree che la parte russa attualmente non
controlla - aree dove vivono milioni di persone - o di ampie parti delle
regioni di Kherson e Zaporizhzhia attualmente sotto controllo russo, ma che si
trovano ben oltre i territori di Donetsk e Luhansk che sono effettivamente gli
unici sui quali da parte russa erano state avanzate delle pretese, seppure
indirette.
È difficile immaginare che la Russia decida di ritirarsi
completamente, in particolare dalle aree che ha ufficialmente dichiarato come
non più parte dell’Ucraina (Crimea, e regioni di Donetsk e Luhansk), ma anche
da aree che sta ormai controllando da oltre due mesi.
È difficile immaginare una vittoria militare piena in un senso o
nell’altro, anche se in questo momento entrambe le parti credono di poter
vincere con le armi più di quanto potrebbero realisticamente ottenere ad un tavolo
negoziale.
A partire da queste premesse, lo scenario che pare più probabile è che
dopo una fase attiva nelle prossime settimane, la guerra si trasformi un po’
alla volta in una guerra di posizione, e che se un qualche accordo ci sarà,
questo rifletterà la situazione ottenuta dalle parti sul campo di battaglia.
Non sarà quindi risultato di un compromesso negoziale, ma una constatazione di
una situazione di fatto. Un cessate-il-fuoco, quindi, non un accordo di pace.
Anche in questa fase, una localizzazione del conflitto, e un minor
coinvolgimento di civili sarebbero certo un passo avanti rispetto alle prime
settimane di guerra, ma mostrano comunque uno scenario tragico, in cui un uso
esteso di armamenti pesanti rimane molto probabile. Si delinea quindi una
situazione di conflitto protratto nel medio periodo con devastanti effetti
sulla popolazione civile, con milioni di sfollati e rifugiati, e vite spezzate
da un confine de facto lungo una linea del fronte che si potrebbe consolidare.
Se questa è la prospettiva che ritengo più probabile – un conflitto
protratto, forse con un cessate-il-fuoco, ma non con un accordo di pace – pare
improbabile che le sanzioni imposte nei confronti della Russia possano essere
ritirate nel breve e medio periodo. Si rischia in sostanza di avere un
conflitto irrisolto tra due tra i più grandi stati europei, Ucraina e Russia,
senza una cesura netta che possa fungere da base per una pace duratura.
Si prospetta una difficile ricostruzione in Ucraina, principale
vittima di questo conflitto. Un percorso difficile, anche dal punto di vista
politico e sociale, per superare la tragedia umana e umanitaria causata da
questa guerra. Si prospetta inoltre una crisi economica e un sistema
autoritario sempre più consolidato in Russia, il più grande paese europeo, che
rischia di essere sempre più isolato dal resto dell’Europa. E infine un paese
come la Bielorussia che rischia di seguirne il destino, nonostante le
incoraggianti proteste che abbiamo visto negli ultimi anni.
Questo, temo, lo scenario di base. Ma molto può succedere in Russia,
in Bielorussia, naturalmente in Ucraina, ma anche in Unione europea per fare in
modo che le cose prendano una piega diversa e positiva, che la ricostruzione
sia rapida, e che benessere, pace e pluralismo si affermino presto e in modo
più duraturo anche in questa parte d’Europa.
Sanzioni e colpa collettiva.
Parto da queste osservazioni su quello che ritengo lo scenario di base
per concentrarmi su cosa da parte nostra è importante tener presente per
sviluppare politiche e pratiche utili per il medio periodo.
Iniziative di società civile e governi devono iniziare a immaginare un
periodo prolungato in cui molte persone che hanno abbandonato l’Ucraina vi
vorranno ritornare, ma avranno bisogno di assistenza per poterlo fare in
maniera dignitosa. Altri, semplicemente, non potranno tornare, perché non hanno
dove tornare o non sono intenzionati ad andare ad abitare in aree controllate
dalle autorità russe. Altri ancora decideranno di tornare ad abitare in queste
aree, anche se saranno controllate dalla Russia in modo più o meno diretto. Il
nostro sostegno, dovrà andare anche a chi farà questa scelta, cercando in ogni
modo di rendere il più trasparente possibile un confine de facto che potrebbe
andarsi a creare; un aspetto delicato, su cui in passato si sono fatti degli
errori, anche in Ucraina.
Senza entrare nei dettagli di tante questioni potenzialmente
rilevanti, ci tengo almeno a toccare uno degli aspetti più dibattuti in Europa:
quello delle sanzioni.
La storia di come le sanzioni sono diventate un elemento centrale dei
contrasti internazionali è ormai lunga e profondamente dibattuta. Si discute
dell’efficacia, degli effetti diretti e indiretti, degli effetti collaterali.
Nel contesto attuale è dibattuto anche quale sia, in effetti, il reale scopo
delle sanzioni: se lo scopo di sanzioni mirate a persone potenti vicine a Putin
sia quello di promuovere defezioni interne all’élite, o addirittura un colpo di
stato. Oppure se lo scopo di sanzioni diffuse sia quello di suscitare tale
malcontento tra la popolazione, da obbligare il Cremlino a cambiare rotta.
È importante sottolineare che nessuno di questi obiettivi, in questa
forma, appare realistico. Le sanzioni tendono a rendere le élite economiche e
politiche più coese, perché aumentano ulteriormente la loro dipendenza dal
principale centro di potere e centro di controllo delle risorse economiche: in
questo caso il Cremlino e nello specifico Vladimir Putin. In un contesto di
limitato pluralismo mediatico e politico, la colpa per i disagi economici e
sociali imposti dalle sanzioni verrà principalmente attribuita a chi le impone,
non alla leadership russa.
L’unico realistico obiettivo per le sanzioni è quello di ridurre
materialmente la capacità delle autorità russe di continuare il proprio sforzo
bellico in Ucraina. Se questo è il principale obiettivo, è importante trovare
modalità per ridurne l’impatto sulla popolazione civile, sia per chi rimane in
Russia, sia per i russi che abbandonano il proprio paese. È importante
mantenere - e anzi favorire - quanti più contatti possibili per la popolazione
russa, che vive in un regime autoritario e che non deve essere vittimizzata né
tantomeno punita, benché le voci attivamente contrarie all’invasione
dell’Ucraina siano sempre rimaste minoritarie. Si può certo parlare di qualche
forma di corresponsabilità da parte dei cittadini russi per le scelte del loro
governo, ed evidentemente di responsabilità diretta per chi ha implementato
quelle scelte commettendo gravi violazioni dei diritti umani. Ma è giusto
sottolineare come un principio di colpa (e punizione) collettiva sia del tutto
estraneo al nostro ordinamento costituzionale, a principi etici condivisi, e
alla natura stessa di diritti umani per come li intendiamo oggi.
Peraltro, e nonostante visibili manifestazioni bellicistiche, in
Russia il sostegno effettivo per l’invasione è in buona parte circostanziale o
passivo. Si vedono sondaggi che evidenziano come, apparentemente, vi sia ampio
sostegno per il presidente russo in generale, e per l’operazione militare russa
in Ucraina in particolare. Ma si tratta di risposte che devono essere
contestualizzate, non solo perché oggi esprimersi contro la guerra in Ucraina è
reato punibile con il carcere in Russia, ma anche perché la guerra, come
rappresentata e raccontata in Russia, è molto diversa da quella che vediamo
noi. C’è quindi forse sostegno per un’“operazione militare speciale per la
difesa del Donbas”, mentre non vi è mai stata, né è mai stata cercata,
approvazione per una piena invasione e occupazione dell’Ucraina.
Credo che questo sia un punto importante: il Cremlino era così certo
di non trovare sostegno diffuso per l’invasione che piuttosto di cercare di
convincere con i forti mezzi di propaganda a propria disposizione che
un’invasione dell’Ucraina era buona e giusta, ha preferito insistere che non ci
sia nessuna invasione. Piuttosto che cercare di convincere la popolazione che
l’invasione dell’Ucraina fosse una guerra giusta, ha preferito vietare in
effetti l’utilizzo della parola “guerra”. Non si celebrano le violenze ai danni
della popolazione ucraina come spesso invece avviene in contesti in cui vi è
sostegno effettivo per una guerra e si esalta la distruzione del nemico; i
media russi di stato, continuano invece a nascondere, negare, o imputare ad
altri ogni violenza contro la popolazione civile ucraina.
Queste non sono le politiche di uno stato autoritario convinto che un
intervento militare contro un odiato nemico goda di ampio sostegno pubblico. Il
messaggio promosso è stato del tutto diverso, ovvero, che la Russia sta
cercando di salvare una popolazione vittima di violenze da parte di
nazionalisti/nazisti ucraini. E che l’Occidente stia sostenendo i nazisti ucraini,
dimostrando ipocrisia senza limiti, con il principale scopo di colpire la
Russia, benché questa stia agendo mossa da motivazioni moralmente impeccabili.
Al di là delle esternazioni estreme che vengono pronunciate nei talk
show televisivi (che in Russia, come da noi, sono per molti versi più pensati
come forma di intrattenimento che non di informazione), anche gli slogan che
vengono promossi dal governo sono prevalentemente difensivi… non certo “a morte
gli ucraini”, o “conquistiamo l’Ucraina”, o neppure “l’Ucraina è nostra”, come
invece si diceva della Crimea. Gli slogan sono piuttosto “non molliamo i nostri
soldati” (#СвоихНеБросаем), non critichiamo i nostri in tempo di guerra,
bisogna resistere a questa inaccettabile e ingiustificata pressione occidentale,
ecc.
Accettare che la Russia abbia deciso di propria iniziativa di
attaccare, uccidere, e torturare il “popolo fratello” ucraino - persone comuni
- continua a sembrare semplicemente inverosimile a gran parte della popolazione
russa, per molti più difficile da credere della versione alternativa promossa
dal governo. In fondo, il fatto che una retorica da “guerra umanitaria” e
difensiva possa essere utilizzata per creare consenso per interventi militari
non dovrebbe essere poi così sorprendente per un pubblico occidentale.
Arrivo ora davvero alle mie riflessioni conclusive, riagganciandomi al
dibattito sulle sanzioni. Capisco che la popolazione russa possa essere
ritenuta complice delle violenze commesse in Ucraina dall’esercito russo, e che
vi sia chi argomenta che la ricostruzione dell’Ucraina dovrà avvenire a spese
della Russia.
Ma nonostante le colpe, innegabili e incontrovertibili, della
Federazione russa, isolare il più grande paese europeo dal resto del continente
non può essere una ricetta per stabilità e prosperità di lungo periodo in
Europa. È quindi utile trovare modalità per attenuare l’impatto delle sanzioni
sulla popolazione civile - mantenendo intatto l’obiettivo di limitare la
capacità dell’esercito russo di continuare l’invasione dell’Ucraina - e di mantenere
vive quante più possibili linee di contatto e interazione. Ed è importante
immaginare un futuro nel quale, non appena possibile, si toglieranno queste
sanzioni: non come pretesto per tirare un sospiro di sollievo e bloccare
nuovamente la transizione energetica e neppure per il nostro tornaconto
economico immediato, ma in primo luogo per evitare che una nuova stagione di
miseria e umiliazione favoriscano il consolidamento di una Russia ancor più
autoritaria, revanscista e anti-occidentale di quella che a febbraio del 2022
ha deciso di invadere l’Ucraina.
Non appena vi saranno le circostanze politiche, l’Unione europea dovrà
fare il possibile per fare in modo che i paesi più direttamente coinvolti in
questa guerra – non solo l’Ucraina, ma anche Bielorussia e Russia – possano
sentirsi parte di una comunità di interessi con il resto del continente. Al di
là del brevissimo periodo, un approccio punitivo nei confronti della Russia non
contribuirà alla pace in Europa, né tantomeno alla sicurezza dell’Ucraina, che
è giustamente la preoccupazione più urgente in questo momento.
Un approccio attento alle conseguenze di lungo periodo delle sanzioni
e di quanto comportano è quantomai necessario per tornare ad immaginare
l’Europa, tutta l’Europa, come quel continente inclusivo di pluralismo e
benessere che, ne sono certo, tutti noi auspichiamo.