29 settembre 2022

Il prossimo obiettivo di Putin è la Moldavia

Gli ucraini che guidano l'offensiva nel sud del Paese affermano che le truppe di Mosca sono demoralizzate, ma avanzano a fatica.

Dmitro Pletenchuk è nato in Siberia nel 1981. "La mia famiglia ha subito ritorsioni durante l'Unione Sovietica, ma i miei genitori sono riusciti a tornare in Ucraina quando ero molto giovane", ricorda. Con la caduta dell'URSS, furono divisi. "Molti dei miei parenti erano militari, quindi la maggior parte ha continuato nei ranghi dell'esercito russo", dice. Tuttavia, combatte per l'Ucraina da quando è scoppiata la guerra nel Donbas nel 2014, come portavoce delle forze armate nella città meridionale di Mykolaiv.

Da qui molte delle operazioni della controffensiva sono ora riuscite a recuperare Kherson, la città più importante in mano ai russi. Nonostante Pletenchuk assicuri che il suo nemico è "demoralizzato", i missili russi continuano a piovere sulla zona e i soldati ucraini non riescono ad avanzare come a Kharkov, dove hanno messo in scena il vertiginoso contrattacco che ha sorpreso il mondo e ha costretto il ritiro e la mobilitazione del nemico. "La Russia sta lanciando bombe da 500 chilogrammi e sta attaccando con l'artiglieria, ma le nostre forze armate mantengono il controllo", aggiungono dal loro dipartimento.

Pletenchuk non esclude che, a un certo punto, dovrà combattere contro i suoi stessi parenti. “Non siamo in contatto dal 2008, perché i miei cugini hanno partecipato all'invasione russa della Georgia. Già allora siamo stati avvertiti che l'Ucraina sarebbe stata la prossima. Mi sento come mio nonno, che ha dovuto difendere Mykolaiv durante la seconda guerra mondiale. Ciò che è cambiato è il nemico", aggiunge.

L'Ucraina dice che si sta muovendo lentamente, ma Mosca è testarda nel definire la controffensiva un fallimento. Entrambe le parti affermano di aver inflitto molte più vittime del nemico: l'Ucraina afferma di aver ucciso ieri 400 soldati russi - più di 55.000 dall'inizio dell'invasione - e la Russia risponde che l'Ucraina ha perso più di 1.700 soldati nei primi due giorni della Solo invasione Kherson controffensiva.

Mentre entrambe le parti fanno del loro meglio per tirare fuori il petto, l'Ucraina è sempre più un paese in rovina. Un esempio dell'enorme devastazione che sta subendo è la sede della Pubblica Amministrazione di Mykolaiv, davanti al cui scheletro annerito Pletenchuk parla con EL CORREO. Da quel poco che resta dell'ultimo piano, pieno di macerie, il soldato punta il dito verso i cantieri navali di Mykolaiv e sottolinea una delle grandi ironie della guerra: "Qui è stata costruita la 'Moskva' nel 1979, l'ammiraglia della Marina russa che abbiamo affondato ad aprile.

Nonostante ciò, i militari sono particolarmente preoccupati per la forza navale russa. “La più grande minaccia sono le navi da guerra nel Mar Nero. I missili che lanciano danno alla Russia un notevole vantaggio", dice. Sono il punto di osservazione perfetto per attaccare la città e svolgono un ruolo chiave nel soffocare il commercio ucraino.

Risuscitare l'Unione Sovietica

"Il vero obiettivo di Vladimir Putin è continuare a diffondere il suo desiderio imperialista e raggiungere Trasnistria, dove ha già una certa presenza militare, e da lì attaccare il resto della Moldova", avanza. Pletenchuk è convinto che il presidente russo voglia rilanciare l'Unione Sovietica, la cui caduta Putin considera "la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo". Per questo Pletenchuk sostiene che l'Occidente deve continuare a sostenere la resistenza ucraina senza crepe. "Se non fermiamo la Russia ora, continuerà la sua espansione imperialista in tutta Europa, proprio come fecero Hitler o Stalin", avverte.

Per raggiungere il suo obiettivo, Pletenchuk considera vitali le armi inviate dagli Stati Uniti e dall'Europa. “Da quando hanno ottenuto il controllo di Mariupol, per i russi è più facile rifornirsi e hanno più armi di noi. Ma l'Ucraina ha un esercito professionale e motivato. Combattiamo per il nostro Paese, mentre i russi non sanno perché lo fanno. E i soldi non sono una motivazione sufficiente per morire", spara, sapendo che se la sua offensiva fallisce, Mykolaiv potrebbe cadere e aprire la strada al porto principale dell'Ucraina, Odessa.

Fonte: Zigor Aldama 


22 settembre 2022

Spunti per un'analisi di medio periodo sull'invasione dell'Ucraina da parte della Russia.

Articolo di Gorgio Comai.

In questa riflessione, non parlerò delle dinamiche immediate del conflitto, della tragedia umana e umanitaria in corso, né tratterò di soluzioni per il breve periodo. Piuttosto, cercherò di offrire alcuni spunti per comprendere e interpretare quanto sta avvenendo, ragionando sul perché si è arrivati a questa guerra, su cosa le dinamiche che hanno portato all’inizio di questa guerra ci possono dire riguardo ai prossimi mesi, e sugli aspetti che trovo preoccupanti cercando di immaginare scenari di medio periodo.

In questo percorso, parlerò più della Russia che dell’Ucraina. Perché se è vero che la guerra si sta combattendo sul suolo ucraino e a scapito della popolazione ucraina, è a Mosca che si è deciso di iniziare la guerra. Ed è da qui che voglio iniziare: dagli obiettivi che la parte russa si è prefissata fin dall’inizio dell’intervento militare in Ucraina.

Tra gli obiettivi diretti più espliciti, evidenzio in particolare la “denazificazione” dell’Ucraina (questo il termine utilizzato da Mosca), la demilitarizzazione dell’Ucraina, e la difesa della popolazione del Donbas. Mi limito agli obiettivi diretti, e non approfondisco motivazioni politiche più ampie addotte nei mesi scorsi dal Cremlino, come ad esempio l’idea di contrastare l’avanzamento della Nato in Europa centro-orientale, anche perché sostanzialmente incompatibili con il percorso interventista scelto: a maggior ragione se l’invasione si fosse rivelata il grande successo auspicato da Mosca, sembra ovvio che questa avrebbe portato a un rafforzamento della Nato nei paesi limitrofi, non certo a una demilitarizzazione della regione. L’eventualità di un riarmo della Nato sul fronte orientale era presumibilmente ritenuta un effetto collaterale accettabile in cambio di un intervento di successo in Ucraina.

Nei primi giorni dell’invasione, la tutela della popolazione del Donbas era regolarmente presentata come motivazione principale dell’intervento sui principali canali televisivi russi. Si parlava infatti costantemente di “operazione militare speciale per la difesa della popolazione del Donbas” e la retorica dominante era quella da “guerra umanitaria”. Nonostante il grande sforzo mediatico dedicato a promuovere questo aspetto, anche solo considerando il fatto che gran parte dell’avanzata militare russa nelle prime settimane ha avuto luogo a centinaia di chilometri di distanza dal Donbas, pare poco credibile che questo fosse effettivamente il principale obiettivo diretto dell’invasione.

Il secondo obiettivo dichiarato è quello di più difficile interpretazione visto da fuori della Russia, ma è quello che secondo me si può ritenere a tutti gli effetti l’obiettivo diretto principale che ha portato all’invasione, ovvero, la “denazificazione” dell’Ucraina, con tutto ciò che questo comporta.

Chi sono i “nazisti”?

Commentando l’idea di “denazificazione”, o della presenza di “nazisti” al governo in Ucraina - questa l’accusa russa - la reazione tipica è quella di cercare di ragionare sulle forze di estrema destra o sull’antisemitismo in Ucraina. C’è ad esempio chi sottolinea che con l’eccezione di una breve fase successiva alla guerra del 2014, l’estrema destra in Ucraina non è mai stata eccezionalmente influente, e da tanti punti di vista è più marginalizzata che in tanti paesi d’Europa. Oppure si dibatte di figure storiche problematiche, come Stepan Bandera, spesso più celebrate che condannate nell’Ucraina di oggi. Si tratta di dibattiti legittimi, ma, nel contesto dell’invasione, effettivamente irrilevanti, perché partono da un fraintendimento su cosa effettivamente voglia dire “nazista” in Russia oggi, un fraintendimento che scaturisce da una diversa memoria della Seconda guerra mondiale e da una diversa interpretazione di cosa rappresenta la fine di quella guerra.

In Russia, la Seconda guerra mondiale, ricordata come “grande guerra patria”, non è ricordata principalmente per l’Olocausto o per le politiche repressive di fascisti e nazisti, ma prima di tutto come una guerra contro l’Unione sovietica, contro la Russia. In Russia, la Seconda guerra mondiale non è stata quindi prima di tutto una guerra contro il totalitarismo (e come potrebbe esserlo, visto che la vittoriosa URSS era guidata da Stalin), o una guerra che ha avuto tra le vittime più riconoscibili gli ebrei d’Europa… prima di tutto, è stata una guerra contro l’URSS. Se nella storiografia sovietica si insisteva anche sull’elemento ideologico (una guerra contro il comunismo), questa tendenza è evidentemente andata a sparire nel periodo post-sovietico. A differenza di come è ricordata in gran parte d’Europa, la Seconda guerra mondiale in Russia, ovvero, la “grande guerra patria” è iniziata nel 1941: ad oggi, è raccontata come una guerra contro l’URSS, contro i russi, per distruggere la Russia.

“Nazista” oggi significa quindi in primo luogo “anti-russo”, in una linea interpretativa che evidenzia orgogliosamente la continuità tra URSS e Russia, insistendo in particolare sulla Russia come forza principale che ha sconfitto il nazismo in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Se ci sia o non ci sia l’estrema destra in Ucraina non è rilevante da parte russa, anzi, come è noto, la vicinanza politica tra la leadership russa e varie espressioni di forze di estrema destra in Europa e negli Stati Uniti è stata in passato del tutto esplicita, e parzialmente rinnegata da noti esponenti di partiti di estrema destra solo molto recentemente. Una certa sintonia su varie questioni evidentemente rimane.

Un altro termine percepito come contiguo, anche per assonanza, è quella tra “nazi” e “nazionalista”. Sulle televisioni russe, ad esempio, in riferimento alla leadership o all’esercito ucraino si utilizzano espressioni come “bande di nazionalisti”. Ma da parte russa, il nazionalismo ucraino è problematico solo nella misura in cui è percepito come “anti-russo”: non è infatti problematica la destra nazionalista di Orbán in Ungheria, né quella di Le Pen in Francia. Ciò che è rilevante è la misura in cui queste forze nazionaliste siano percepite come “anti-russe”.

Cosa vuol dire essere “anti-russo”? Nella logica avanzata da Putin nei suoi recenti interventi a tema storico, immaginare una nazione ucraina separata dalla Russia vuol dire essere “anti-russo”, vuol dire voler spezzare la presunta unità dei popoli slavi legati alla Rus’ storica: russi, bielorussi, e ucraini. In questa chiave di lettura, “anti-russo”, e quindi “nazi”, non è solo chi si potrebbe definire un nazionalista in Ucraina, ma in sostanza chiunque creda che l’Ucraina - come stato e come popolo che vi abita - non sia parte indissolubile della Russia, non sia parte del popolo russo. Con queste premesse è possibile capire perché da parte russa si insista su come il governo ucraino sia in mano a nazisti e che l’Ucraina sia piena di nazisti e abbia bisogno di essere “denazificata”.

Questa narrativa, e più in generale la presunta onnipresenza di nazisti in Ucraina, suscita certo perplessità anche tra la popolazione russa. Secondo un’inchiesta pubblicata dal media investigativo russo Proekt  infatti, sondaggi effettuati su richiesta del Cremlino nell’aprile di quest’anno per verificare l’efficacia della comunicazione sulla guerra avrebbero rivelato che l’insistenza sulla “denazificazione” era fonte di incomprensione nel pubblico russo. Il termine è quindi ora meno utilizzato nei media russi, ma rimane nondimeno espressione diretta delle fondamenta ideologiche che hanno portato a questa guerra.

Mi sono dilungato su questo aspetto, per evidenziare come alcune delle dinamiche che hanno portato a questa guerra abbiano bisogno di una traduzione concettuale, più che letterale. Partendo da queste premesse, possiamo però capire come l’Ucraina, l’identità ucraina, l’esistenza di un’identità ucraina, sia effettivamente la questione principale diretta che ha portato a questa guerra. Dal punto di vista del Cremlino, nell’ottica di questa guerra, Nato e Unione europea sono un problema principalmente perché rappresentano strade che portano ad un’Ucraina meno “russa”, meno parte del mondo russo. La minaccia non è quindi evidentemente militare – anche nell’immaginario più paranoico, è difficile ritenere che le repubbliche baltiche o la stessa Ucraina possano un giorno decidere di invadere la Russia - ma in primo luogo identitaria.

C’è ovviamente spazio per ragionamenti più ampi sull’architettura della sicurezza europea, e certo anche per criticare alcune delle politiche dei governi occidentali, l’allargamento della NATO, cose fatte o dette, l’ipocrisia, le mezze promesse, ma tutto questo è, di per sé, poco utile per spiegare o capire gli eventi di questi mesi.

Se ci sono responsabilità di lungo periodo da parte occidentale, ritengo che queste siano di carattere meno diretto e riguardino in particolare gli eventi che hanno portato al fallimento della transizione economica e politica negli anni Novanta in Russia, nonché alcune delle dinamiche che hanno portato al rafforzamento di un regime autoritario in Russia negli anni successivi. Si può anche ricordare il ruolo che vari attori in Europa – in modo più evidente il Regno Unito, ma non solo - hanno avuto nel favorire il reinvestimento in Europa di grandi capitali emersi da corruzione e clientelismo in Russia: un’appropriazione criminale su ampia scala effettuata con il favoreggiamento di entità europee che ha contribuito ha solidificare il sistema di governo di Putin e a impoverire il paese.

Su questi aspetti torno tra poco.

Prima di procedere, voglio però condividere qualche riflessione sul ruolo del presidente della Federazione russa, Vladimir Putin.

Putin, e perché l’invasione era necessaria e urgente.

Per tanti anni, chi si occupa di Russia si è ritrovato ad insistere sull’importanza di pensare alla Federazione russa senza concentrarsi sempre e solo su Putin, oggetto di un’ossessione mediatica straordinaria. Eppure, in questa fase, è innegabile il ruolo determinante del presidente russo, e più in generale il fatto che l’invasione dell’Ucraina sia stata pensata e fortemente voluta da Putin stesso.

Si è molto parlato dell’isolamento di Putin anche dai suoi alleati più stretti in quest’ultimo paio d’anni, in particolare a partire dall’inizio della pandemia. C’è chi dice che Putin non sappia davvero cosa accade, perché si è circondato di persone che vogliono solo assecondarlo, ed in parte probabilmente è vero. Clientelismo, corruzione, e repressione, non sono certo gli ingredienti migliori per avere un processo decisionale funzionale o informazioni oneste sullo stato delle cose.

Ma non è solo questo il problema. Come ha ripetutamente dichiarato lui stesso, Putin è ricorso a misure estreme perché è convinto di dover salvare la nazione russa da una minaccia imminente e di tipo esistenziale. Già nel 2021 spiegava in un suo intervento  come “la formazione di uno stato ucraino etnicamente puro, aggressivo nei confronti della Russia, è comparabile nelle sue conseguenze all'impiego di armi di distruzione di massa contro di noi”. Esternazioni di questo tenore sono apparse di nuovo nei giorni che hanno segnato l’inizio dell’invasione.

Anche se non l’ha detto esplicitamente, pare evidente che sia convinto di essere l’unica persona in grado di salvare la nazione russa da questa minaccia, e che senta di non potersi fidare neppure delle persone del suo entourage, tra cui si annoverano a suo avviso ingenui affascinati dall’Occidente o persone che non hanno il coraggio di fare ciò di cui vi è bisogno. In definitiva persone che in buona parte non sentono l’urgenza e la dimensione storica del rischio, o che non lo percepiscono come esistenziale. Non si rendono conto che la Russia sta perdendo l’Ucraina, e che l’unità del popolo russo è quindi fondamentalmente minacciata.

Chi ha deciso “bisogna invadere ora”, è stato Vladimir Putin. E l’ha deciso, sapendo che la maggior parte delle persone intorno a lui non la consideravano neppure come un’opzione. Fino a pochi giorni prima dell’invasione, non solo membri del governo, ma come è poi emerso da intercettazioni, anche gran parte dell’esercito stesso non era conscia che stava effettivamente per entrare in guerra. È stata preferita la segretezza alla preparazione – come è emerso anche nelle prime settimane di guerra, quando è apparsa impietosamente evidente l’impreparazione logistica dell’esercito russo.

È anche perché sa di avere attorno a sé persone che non sentono l’urgenza di questa sua missione che Putin si ritiene insostituibile, e che ritiene di avere una missione storica da completare prima che sia troppo tardi. Per ragionare e concentrarsi sul suo lascito storico in questi ultimi anni Putin ha in buona parte trascurato la gestione di dinamiche interne, che a quanto pare sempre meno lo interessavano – in netto contrasto con i primi anni della sua presidenza.

In pratica, ed a prescindere degli sviluppi dei prossimi mesi, è chiaro che le azioni di queste settimane ottengono l’esatto contrario di ciò che si proponevano di fare: un’identità nazionale ucraina più forte, basata ora sì, plausibilmente, su basi più esplicitamente anti-russe; una rimilitarizzazione dell’Europa centro-occidentale, che torna a vedere ad est la minaccia più immediata, in parte rivedendo politiche di difesa che erano sempre più mirate al terrorismo internazionale; una rinnovata legittimazione della Nato; infine, un crollo economico in Russia che, da molti punti di vista, elimina quello che storicamente è stato il più grande elemento di legittimazione interna di Putin: il superamento della miseria economica e sociale degli anni Novanta, e la sua presunta capacità di offrire stabilità e progressiva crescita economica.

Al di là del fallimento delle politiche di Putin – non solo negli ultimi mesi, ma almeno nell’ultimo decennio, comunque le si voglia misurare – se si accettano le premesse di cui sopra, probabilmente gli eventi di queste settimane rafforzano più che smentire le convinzioni di Putin: davvero c’era urgenza di intervenire, e anzi, quanto avvenuto in queste settimane dimostra che effettivamente era già troppo tardi. Davvero l’Occidente era intento a spaccare e indebolire la nazione russa, utilizzando strumentalmente l’Ucraina a questo scopo.

Delineo queste premesse, per quanto insostenibili, perché purtroppo credo siano parte importante del perché c’è questa guerra, e del perché rimane difficile, quasi impossibile, immaginare negoziati funzionali a partire da queste premesse. E perché evidenziano una causa ancor più diretta della guerra in Ucraina, quella che a tutti gli effetti ritengo la causa principale di questa guerra: l’autoritarismo in Russia.

Una Russia anche solo un po’ meno autoritaria del paese che ha Putin per presidente nel 2022 non avrebbe lanciato un’invasione dell’Ucraina.

Autoritarismo in Russia e responsabilità dell’Occidente.

Se la causa principale di questa guerra è l’autoritarismo in Russia, è quindi a maggior ragione importante capire come si è arrivati all’attuale livello di autoritarismo in Russia, e quali sono gli elementi di legittimità che hanno permesso a Putin di consolidare il suo potere, permettendo che quello che era un sistema ibrido durante gli anni 2000 diventasse sempre più un sistema semi-autoritario, e poi pienamente autoritario.

Come accennato poco fa, la promessa di superare la miseria economica e sociale degli anni Novanta e di garantire stabilità e progressiva crescita economica, è stato il principale elemento che ha fornito legittimità al governo di Putin, e che continua ad essere utilizzato anche ad oltre vent’anni di distanza da quegli anni che hanno così profondamente caratterizzato la narrativa dominante sugli sviluppi della Russia post-sovietica.

In quale misura il relativo benessere degli anni 2000 sia effettivamente attribuibile a Putin è oggetto di discussione, anche considerando il fatto che le risorse economiche che hanno determinato quella fase di crescita sono emerse da dinamiche congiunturali relative al prezzo degli idrocarburi che hanno ben poco a che fare con chi sedeva al Cremlino. Ciò che è certo, è che effettivamente gli anni Novanta sono stati anni di grande miseria in Russia, anni durante i quali l’aspettativa di vita è crollata bruscamente e la parte di popolazione che viveva in povertà estrema si è moltiplicata. Anni in cui l’Occidente ha sostanzialmente sostenuto e promosso le politiche che hanno determinato questi sviluppi.

In molti infatti credevano davvero che la cosa più urgente ed importante fosse introdurre un’economia di mercato, non importa a quale costo, perché un’economia di mercato avrebbe impedito il ritorno del Partito comunista al potere, e, nel lungo periodo, avrebbe portato inevitabilmente alla democrazia. Altri probabilmente erano lieti di vedere una Russia indebolita, e quindi apparentemente meno minacciosa. Ad altri ancora, semplicemente, la questione non pareva urgente: l’Urss era finita, e la Russia non era più un problema.

Questo però ha avuto conseguenze. Perché il fallimento della transizione economica ha contribuito in modo determinante al fallimento della transizione politica. I “democratici”/“europeisti”/“filo-occidentali” sono rimasti associati alla miseria e alle umiliazioni degli anni Novanta. Si è quindi lasciato che la Russia, il più grande paese europeo, cadesse in rovina, creando il contesto per un revanscismo anti-occidentale e autoritario di cui vediamo oggi le tragiche conseguenze. Non era un processo inevitabile, ma a questo si è arrivati. Se vogliamo quindi ragionare su responsabilità occidentali di lungo periodo – e magari cercare nel passato recente spunti di riflessione per il futuro – ritengo che questa sia la più importante: non impegnarsi negli anni Novanta perché la Russia potesse avere una transizione economica e sociale dignitosa.

Scenari e prospettive.

Riparto da questo aspetto per tornare al presente. Ho delineato quali ritengo siano le principali cause dirette e indirette dell’attuale guerra. Da una parte, un’ossessione identitaria nel Cremlino che vede Ucraina (e Bielorussia) come parte inseparabile della nazione russa, e che individua nell’Occidente un nemico che sostiene determinate politiche in Ucraina (e Bielorussia) con il principale scopo di indebolire la Russia stessa. In questo senso la Russia, la nazione russa, in prospettiva storica, sarebbe vittima di un attacco di tipo esistenziale: per questo la Russia era minacciata, non si poteva attendere oltre, e quindi non c’era alternativa alla guerra.

In secondo luogo, l’autoritarismo in Russia, emerso e consolidatosi in parte in reazione a diffusa miseria e malessere sociale degli anni Novanta, rafforzatosi sulla base di un’equivalenza tra umiliazione personale e nazionale, e sull’identificazione dell’Occidente come principale causa sia della miseria che dell’umiliazione, riprendendo quindi un immaginario radicato anche in epoca sovietica per cui l’Occidente è costantemente intento a indebolire, se non proprio a distruggere, la Russia. I connotati ideologici di questo scontro sono nel frattempo spariti, solo in parte sostituiti da una retorica “conservatrice” e omofoba che presenta la Russia come un baluardo contro un Occidente depravato.

Partendo da queste considerazioni, condivido qualche riflessione sulle prospettive dei prossimi mesi e anni, e su alcuni aspetti che dovrebbero essere tenuti in considerazione in ottica di medio periodo.

È giusto auspicare che la guerra finisca al più presto, ad un tavolo negoziale, con la firma di un accordo di pace. Purtroppo, non vi è ancora traccia di effettivi negoziati, né è facile immaginarli nel breve periodo. Nei media russi ancora non vi è traccia di uno sforzo per definire un risultato, dal punto di vista politico e territoriale, che possa essere ritenuto soddisfacente; gli obiettivi non sono cambiati, e nella retorica pubblica per ora non si lascia spazio a voci favorevoli a qualsivoglia forma di compromesso. Anche lasciando da parte le richieste iniziali di “denazificazione” da parte russa, ammettendo un’apertura ucraina ad escludere un proprio ingresso nella Nato e – pur senza rinunciarvi formalmente – non esigere come condizione preliminare per un accordo la ritirata russa da Crimea ed aree controllate in Donbas prima dell’inizio delle ostilità nel febbraio di quest’anno, le posizioni continuano ad apparire distanti e inconciliabili.

È difficile immaginare come da parte ucraina si possa concedere sul tavolo negoziale il controllo di ampie aree che la parte russa attualmente non controlla - aree dove vivono milioni di persone - o di ampie parti delle regioni di Kherson e Zaporizhzhia attualmente sotto controllo russo, ma che si trovano ben oltre i territori di Donetsk e Luhansk che sono effettivamente gli unici sui quali da parte russa erano state avanzate delle pretese, seppure indirette.

È difficile immaginare che la Russia decida di ritirarsi completamente, in particolare dalle aree che ha ufficialmente dichiarato come non più parte dell’Ucraina (Crimea, e regioni di Donetsk e Luhansk), ma anche da aree che sta ormai controllando da oltre due mesi.

È difficile immaginare una vittoria militare piena in un senso o nell’altro, anche se in questo momento entrambe le parti credono di poter vincere con le armi più di quanto potrebbero realisticamente ottenere ad un tavolo negoziale.

A partire da queste premesse, lo scenario che pare più probabile è che dopo una fase attiva nelle prossime settimane, la guerra si trasformi un po’ alla volta in una guerra di posizione, e che se un qualche accordo ci sarà, questo rifletterà la situazione ottenuta dalle parti sul campo di battaglia. Non sarà quindi risultato di un compromesso negoziale, ma una constatazione di una situazione di fatto. Un cessate-il-fuoco, quindi, non un accordo di pace.

Anche in questa fase, una localizzazione del conflitto, e un minor coinvolgimento di civili sarebbero certo un passo avanti rispetto alle prime settimane di guerra, ma mostrano comunque uno scenario tragico, in cui un uso esteso di armamenti pesanti rimane molto probabile. Si delinea quindi una situazione di conflitto protratto nel medio periodo con devastanti effetti sulla popolazione civile, con milioni di sfollati e rifugiati, e vite spezzate da un confine de facto lungo una linea del fronte che si potrebbe consolidare.

Se questa è la prospettiva che ritengo più probabile – un conflitto protratto, forse con un cessate-il-fuoco, ma non con un accordo di pace – pare improbabile che le sanzioni imposte nei confronti della Russia possano essere ritirate nel breve e medio periodo. Si rischia in sostanza di avere un conflitto irrisolto tra due tra i più grandi stati europei, Ucraina e Russia, senza una cesura netta che possa fungere da base per una pace duratura.

Si prospetta una difficile ricostruzione in Ucraina, principale vittima di questo conflitto. Un percorso difficile, anche dal punto di vista politico e sociale, per superare la tragedia umana e umanitaria causata da questa guerra. Si prospetta inoltre una crisi economica e un sistema autoritario sempre più consolidato in Russia, il più grande paese europeo, che rischia di essere sempre più isolato dal resto dell’Europa. E infine un paese come la Bielorussia che rischia di seguirne il destino, nonostante le incoraggianti proteste che abbiamo visto negli ultimi anni.

Questo, temo, lo scenario di base. Ma molto può succedere in Russia, in Bielorussia, naturalmente in Ucraina, ma anche in Unione europea per fare in modo che le cose prendano una piega diversa e positiva, che la ricostruzione sia rapida, e che benessere, pace e pluralismo si affermino presto e in modo più duraturo anche in questa parte d’Europa.

Sanzioni e colpa collettiva.

Parto da queste osservazioni su quello che ritengo lo scenario di base per concentrarmi su cosa da parte nostra è importante tener presente per sviluppare politiche e pratiche utili per il medio periodo.

Iniziative di società civile e governi devono iniziare a immaginare un periodo prolungato in cui molte persone che hanno abbandonato l’Ucraina vi vorranno ritornare, ma avranno bisogno di assistenza per poterlo fare in maniera dignitosa. Altri, semplicemente, non potranno tornare, perché non hanno dove tornare o non sono intenzionati ad andare ad abitare in aree controllate dalle autorità russe. Altri ancora decideranno di tornare ad abitare in queste aree, anche se saranno controllate dalla Russia in modo più o meno diretto. Il nostro sostegno, dovrà andare anche a chi farà questa scelta, cercando in ogni modo di rendere il più trasparente possibile un confine de facto che potrebbe andarsi a creare; un aspetto delicato, su cui in passato si sono fatti degli errori, anche in Ucraina.

Senza entrare nei dettagli di tante questioni potenzialmente rilevanti, ci tengo almeno a toccare uno degli aspetti più dibattuti in Europa: quello delle sanzioni.

La storia di come le sanzioni sono diventate un elemento centrale dei contrasti internazionali è ormai lunga e profondamente dibattuta. Si discute dell’efficacia, degli effetti diretti e indiretti, degli effetti collaterali. Nel contesto attuale è dibattuto anche quale sia, in effetti, il reale scopo delle sanzioni: se lo scopo di sanzioni mirate a persone potenti vicine a Putin sia quello di promuovere defezioni interne all’élite, o addirittura un colpo di stato. Oppure se lo scopo di sanzioni diffuse sia quello di suscitare tale malcontento tra la popolazione, da obbligare il Cremlino a cambiare rotta.

È importante sottolineare che nessuno di questi obiettivi, in questa forma, appare realistico. Le sanzioni tendono a rendere le élite economiche e politiche più coese, perché aumentano ulteriormente la loro dipendenza dal principale centro di potere e centro di controllo delle risorse economiche: in questo caso il Cremlino e nello specifico Vladimir Putin. In un contesto di limitato pluralismo mediatico e politico, la colpa per i disagi economici e sociali imposti dalle sanzioni verrà principalmente attribuita a chi le impone, non alla leadership russa.

L’unico realistico obiettivo per le sanzioni è quello di ridurre materialmente la capacità delle autorità russe di continuare il proprio sforzo bellico in Ucraina. Se questo è il principale obiettivo, è importante trovare modalità per ridurne l’impatto sulla popolazione civile, sia per chi rimane in Russia, sia per i russi che abbandonano il proprio paese. È importante mantenere - e anzi favorire - quanti più contatti possibili per la popolazione russa, che vive in un regime autoritario e che non deve essere vittimizzata né tantomeno punita, benché le voci attivamente contrarie all’invasione dell’Ucraina siano sempre rimaste minoritarie. Si può certo parlare di qualche forma di corresponsabilità da parte dei cittadini russi per le scelte del loro governo, ed evidentemente di responsabilità diretta per chi ha implementato quelle scelte commettendo gravi violazioni dei diritti umani. Ma è giusto sottolineare come un principio di colpa (e punizione) collettiva sia del tutto estraneo al nostro ordinamento costituzionale, a principi etici condivisi, e alla natura stessa di diritti umani per come li intendiamo oggi.

Peraltro, e nonostante visibili manifestazioni bellicistiche, in Russia il sostegno effettivo per l’invasione è in buona parte circostanziale o passivo. Si vedono sondaggi che evidenziano come, apparentemente, vi sia ampio sostegno per il presidente russo in generale, e per l’operazione militare russa in Ucraina in particolare. Ma si tratta di risposte che devono essere contestualizzate, non solo perché oggi esprimersi contro la guerra in Ucraina è reato punibile con il carcere in Russia, ma anche perché la guerra, come rappresentata e raccontata in Russia, è molto diversa da quella che vediamo noi. C’è quindi forse sostegno per un’“operazione militare speciale per la difesa del Donbas”, mentre non vi è mai stata, né è mai stata cercata, approvazione per una piena invasione e occupazione dell’Ucraina.

Credo che questo sia un punto importante: il Cremlino era così certo di non trovare sostegno diffuso per l’invasione che piuttosto di cercare di convincere con i forti mezzi di propaganda a propria disposizione che un’invasione dell’Ucraina era buona e giusta, ha preferito insistere che non ci sia nessuna invasione. Piuttosto che cercare di convincere la popolazione che l’invasione dell’Ucraina fosse una guerra giusta, ha preferito vietare in effetti l’utilizzo della parola “guerra”. Non si celebrano le violenze ai danni della popolazione ucraina come spesso invece avviene in contesti in cui vi è sostegno effettivo per una guerra e si esalta la distruzione del nemico; i media russi di stato, continuano invece a nascondere, negare, o imputare ad altri ogni violenza contro la popolazione civile ucraina.

Queste non sono le politiche di uno stato autoritario convinto che un intervento militare contro un odiato nemico goda di ampio sostegno pubblico. Il messaggio promosso è stato del tutto diverso, ovvero, che la Russia sta cercando di salvare una popolazione vittima di violenze da parte di nazionalisti/nazisti ucraini. E che l’Occidente stia sostenendo i nazisti ucraini, dimostrando ipocrisia senza limiti, con il principale scopo di colpire la Russia, benché questa stia agendo mossa da motivazioni moralmente impeccabili.

Al di là delle esternazioni estreme che vengono pronunciate nei talk show televisivi (che in Russia, come da noi, sono per molti versi più pensati come forma di intrattenimento che non di informazione), anche gli slogan che vengono promossi dal governo sono prevalentemente difensivi… non certo “a morte gli ucraini”, o “conquistiamo l’Ucraina”, o neppure “l’Ucraina è nostra”, come invece si diceva della Crimea. Gli slogan sono piuttosto “non molliamo i nostri soldati” (#СвоихНеБросаем), non critichiamo i nostri in tempo di guerra, bisogna resistere a questa inaccettabile e ingiustificata pressione occidentale, ecc.

Accettare che la Russia abbia deciso di propria iniziativa di attaccare, uccidere, e torturare il “popolo fratello” ucraino - persone comuni - continua a sembrare semplicemente inverosimile a gran parte della popolazione russa, per molti più difficile da credere della versione alternativa promossa dal governo. In fondo, il fatto che una retorica da “guerra umanitaria” e difensiva possa essere utilizzata per creare consenso per interventi militari non dovrebbe essere poi così sorprendente per un pubblico occidentale.

Arrivo ora davvero alle mie riflessioni conclusive, riagganciandomi al dibattito sulle sanzioni. Capisco che la popolazione russa possa essere ritenuta complice delle violenze commesse in Ucraina dall’esercito russo, e che vi sia chi argomenta che la ricostruzione dell’Ucraina dovrà avvenire a spese della Russia.

Ma nonostante le colpe, innegabili e incontrovertibili, della Federazione russa, isolare il più grande paese europeo dal resto del continente non può essere una ricetta per stabilità e prosperità di lungo periodo in Europa. È quindi utile trovare modalità per attenuare l’impatto delle sanzioni sulla popolazione civile - mantenendo intatto l’obiettivo di limitare la capacità dell’esercito russo di continuare l’invasione dell’Ucraina - e di mantenere vive quante più possibili linee di contatto e interazione. Ed è importante immaginare un futuro nel quale, non appena possibile, si toglieranno queste sanzioni: non come pretesto per tirare un sospiro di sollievo e bloccare nuovamente la transizione energetica e neppure per il nostro tornaconto economico immediato, ma in primo luogo per evitare che una nuova stagione di miseria e umiliazione favoriscano il consolidamento di una Russia ancor più autoritaria, revanscista e anti-occidentale di quella che a febbraio del 2022 ha deciso di invadere l’Ucraina.

Non appena vi saranno le circostanze politiche, l’Unione europea dovrà fare il possibile per fare in modo che i paesi più direttamente coinvolti in questa guerra – non solo l’Ucraina, ma anche Bielorussia e Russia – possano sentirsi parte di una comunità di interessi con il resto del continente. Al di là del brevissimo periodo, un approccio punitivo nei confronti della Russia non contribuirà alla pace in Europa, né tantomeno alla sicurezza dell’Ucraina, che è giustamente la preoccupazione più urgente in questo momento.

Un approccio attento alle conseguenze di lungo periodo delle sanzioni e di quanto comportano è quantomai necessario per tornare ad immaginare l’Europa, tutta l’Europa, come quel continente inclusivo di pluralismo e benessere che, ne sono certo, tutti noi auspichiamo.

 

18 settembre 2022

La funzione reale dell'Europa.

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha proiettato ieri prima della sessione plenaria del Parlamento europeo un intervento sullo stato dell'Unione che si collega al valore originario del progetto di costruzione europea e al suo orientamento verso un modello di convivenza nella democrazia, nel rispetto dell'eguaglianza e dei diritti, nella coesione sociale e nel benessere dei cittadini. Immersa nella crisi più grave dell'ultimo decennio, il messaggio della Commissione ha rafforzato il modello di Europa sociale contro la tentazione di una certa tendenza discorsiva a sostenere una mera Europa dei mercati dopo la traumatica uscita britannica e le tensioni energetiche. Oggi l'Europa si trova di fronte alla necessità di consolidare la propria indipendenza in termini di sostenibilità economica, energetica, finanziaria e sociale. E nessuna di queste aree può essere lasciata in secondo piano a vantaggio di soluzioni a breve termine. Von der Leyen pone i cittadini e il loro benessere al centro dell'azione di solidarietà dei partner dell'Unione. Ciò implica garantire standard di qualità e accesso a condizioni di vita dignitose che dovrebbero portare ad accelerare la trasformazione del modello di crescita e non a rallentarlo. La sostenibilità passa attraverso l'autosufficienza energetica e questo implica un impegno fermo e costante verso modelli di generazione rinnovabile, indipendentemente dal fatto che inasprisca la garanzia immediata di accesso all'energia per imprese e cittadini e li costringa a contemplare alternative meno sostenibili. Ma sempre circostanzialmente e con una data di scadenza. La sfida energetica deve essere sostenibile o fallirà. Deve favorire lo sviluppo economico senza compromettere l'ambiente o la redditività delle strutture produttive e generatrici di posti di lavoro. Deve soddisfare la stabilità delle società europee impegnate nel processo democratico, nell'uguaglianza e nella coesione sociale. La mancanza è nemica dei diritti, ma anche dell'innovazione e dello sviluppo economico. L'Europa non uscirà da questo bivio scommettendo su un altro transito di "uomini in nero" perché non lo farà cedendo al dogmatismo ideologico o al populismo interessato. La principale risorsa della democrazia è il benessere e la stabilità che deve fornire. Lì, il gioco si gioca in termini di corresponsabilità. Non è un gioco di vincitori e vinti. Deve soddisfare la stabilità delle società europee impegnate nel processo democratico, nell'uguaglianza e nella coesione sociale. La mancanza è nemica dei diritti, ma anche dell'innovazione e dello sviluppo economico. L'Europa non uscirà da questo bivio scommettendo su un altro transito di "uomini in nero" perché non lo farà cedendo al dogmatismo ideologico o al populismo interessato. La principale risorsa della democrazia è il benessere e la stabilità che deve fornire. Lì, il gioco si gioca in termini di corresponsabilità. Non è un gioco di vincitori e vinti. Deve soddisfare la stabilità delle società europee impegnate nel processo democratico, nell'uguaglianza e nella coesione sociale. La mancanza è nemica dei diritti, ma anche dell'innovazione e dello sviluppo economico. L'Europa non uscirà da questo bivio scommettendo su un altro transito di "uomini in nero" perché non lo farà cedendo al dogmatismo ideologico o al populismo interessato. La principale risorsa della democrazia è il benessere e la stabilità che deve fornire. Lì, il gioco si gioca in termini di corresponsabilità. Non è un gioco di vincitori e vinti. L'Europa non uscirà da questo bivio scommettendo su un altro transito di "uomini in nero" perché non lo farà cedendo al dogmatismo ideologico o al populismo interessato. La principale risorsa della democrazia è il benessere e la stabilità che deve fornire. Lì, il gioco si gioca in termini di corresponsabilità. Non è un gioco di vincitori e vinti. L'Europa non uscirà da questo bivio scommettendo su un altro transito di "uomini in nero" perché non lo farà cedendo al dogmatismo ideologico o al populismo interessato. La principale risorsa della democrazia è il benessere e la stabilità che deve fornire. Lì, il gioco si gioca in termini di corresponsabilità. Non è un gioco di vincitori e vinti.
 

13 settembre 2022

La sinistra sta attraversando momenti critici.

Oggi voglio fare una mia personale riflessione sul fallimento della sinistra in generale e sulla destra liberale che sta vincendo.

La ragione principale del fallimento della sinistra risiede nel suo fallimento ideologico. Il socialismo reale è stato demolito nel 1989 e, con la demolizione del muro di Berlino, gran parte delle basi su cui si basavano le posizioni politiche dei partiti sindacali e socialdemocratici sono state ridotte in macerie.  Il problema della sinistra è che dal 1989 non ha saputo reinventarsi.

Altra ragione del fallimento politico della sinistra è la decisione di basare le proprie strategie elettorali sull'aggiunta di maggioranze "acquistando" il sostegno politico da minoranze e gruppi eterogenei, che questo o quello è promesso. Finché l'economia cresce e genera entrate pubbliche sufficienti per trasferire entrate a questi gruppi, è possibile vincere le elezioni e mantenere il potere, ma quando i soldi scompaiono dalle mani di una crisi, il castello elettorale inevitabilmente crolla, perché non è possibile continuare a «comprare» questi gruppi e, oltre a ciò, il progetto politico è privo di contenuti reali.

L'incoerenza personale in cui buona parte dei politici – e sedicenti intellettuali – della sinistra  hanno vissuto e continuano a vivere oggi. Criticano il capitalismo del libero mercato, ma amano viverci. Strizzano l'occhio alle dittature comuniste, ma non gli verrebbe mai in mente di viverci. Fanno discorsi operaisti e populisti, ma vivono nei quartieri migliori, dove vogliono che i loro figli vengano educati. Difendono la scuola pubblica, ma portano i loro figli nelle scuole private. Criticano gli Stati Uniti, ma mandano i loro figli a studiare nelle loro università. Criticano l'industria cinematografica americana, ma muoiono dalla voglia di vincere un Oscar di Hollywood.

In molti partiti di sinistra, i loro leader e quadri sono riusciti a proteggersi dai loro successivi fallimenti, in modo tale che l'obiettivo di vincere le elezioni è stato subordinato a quello della sopravvivenza personale. Il tuo obiettivo non è vincere; è rimanere nell'apparato dei partiti, anche se trincerati in una sconfitta permanente.

Viceversa, la destra liberale sta vincendo la battaglia delle idee, e questa è la ragione principale delle sue vittorie.
E sta vincendo questa battaglia nonostante l'assalto che sta subendo dalle sinistre. La destra liberale sta vincendo perché si basa su idee vincenti che generano prosperità: libertà, contrapposta all'interventismo; la società aperta, di fronte ai suoi nemici; merito, contro l'egualitarismo; lo sforzo e la sua ricompensa, a fronte di un illimitato redistribuzionismo; uguaglianza davanti alla legge, in opposizione all'uguaglianza attraverso la legge. E le buone idee, messe in pratica, si traducono in buone politiche, che finiscono sempre per dare buoni risultati elettorali.

 

11 settembre 2022

Non facciamoci ingannare!!!



Noi cittadini abbiamo la sensazione di vivere in una tensione elettorale permanente. Si è imposto un modello di informazione politica che riempie le pagine dei giornali e molti minuti e ore alla radio o alla televisione. Viviamo in una società in cui regna la confusione totale.  

In Italia siamo in un processo elettorale per eleggere il prossimo governo.  Per noi cittadini questa è la più grande opportunità di esercitare la nostra libertà di eleggere i partiti ei candidati per i quali sentiamo più simpatia o vicinanza ideologica. Il problema della campagna elettorale è che sino ad oggi non siamo riusciti a vedere  delle vere proposte politiche. I programmi dei partiti si nascondono davanti al frastuono degli scontri e alle reciproche dichiarazioni offensive e squalificanti. I titoli della campagna amplificano la rabbia e il "tu di più". E in questa cerimonia di confusione, molti di coloro che possono esercitare il loro sacro diritto di voto non sanno davvero per quale programma di governo andranno a votare. Si vota per la destra o la sinistra, o per altri partiti con sfumature intermedie o più radicali, ma c'è anche chi non vota, o vota in bianco, spinto dal rifiuto, dalla pigrizia o dalla voglia di andare al mare. Le politiche da applicare sono evidenti per la loro assenza in queste campagne in cui prevale il confronto.  E tra ciò che i candidati ci nascondono sulle loro intenzioni e ciò che i media ci offrono sulle loro controversie, noi non abbiamo informazioni sufficienti per votare coscienziosamente. Solo in quei dibattiti televisivi in ​​cui i vari candidati si fronteggiano, per parlare delle loro proposte tematiche, possiamo vedere o intuire dove respira ogni candidato. 

In queste elezioni ci sono lupi travestiti da pecore. Bisogna saper distinguere tra chi parla onestamente e responsabilmente e tra chi imbroglia e travisa per ottenere il voto contestato del signor Caio.Vi ricordate il film : Totò e gli onorevoli? Ebbene, non è cambiato niente.  

Non lasciamoci ingannare e andiamo a votare responsabilmente!!! 


09 settembre 2022

Ma, in che mondo viviamo?

 

Che strani pensieri ti vengono quando il caldo afoso di questi giorni non ti fa dormire. Si pensa a tutto, al passato, al presente, e, ti passano sotto gli occhi gli articoli dei giornali che parlano di fatti brutti ed alcuni anche belli, ti sembra di ascoltare la radio e vedere la televisione, ma la musica è sempre la stessa. E, poi, quando gli occhi stanno per chiudersi ricordi qualcosa che ti fa pensare. Una signora, o forse un uomo che denuncia di avere scritto infinite lettere, ai vari Ministeri, ai giornali, a personalità dello Stato, a persone che contano, esponendo i problemi anche gravi, senza ricevere alcuna risposta. Ma, in che mondo viviamo? E, perchè nessuno risponde a queste lettere di denuncia? Si da, magari, la colpa alle Poste che non consegnano le lettere, ma nello stesso tempo sappiamo che non è così!. Ed allora? Forse chi dovrebbe rispondere è in letargo o non tiene conto di quanto ha letto? Eppure, io credo, che il cittadino italiano, il poveretto che si è rivolto fiducioso, magari per avere giustizia di qualche torto subito, è lo stesso che con le sue bricioline, forma la bella pagnotta con companatico, con cui il Don o l’On.le, o il Pres. o l’Eccellenza….. si satolla? E, non è forse vero perciò che il “poveretto” dovrebbe essere considerato con più rispetto e non essere offeso con il silenzio? Certo che l’addetto ai lavori che riceve la missiva, o le missive, fa una scelta, per cui quelle che hanno il profumo inconfondibile, del povero cittadino, della plebe, passano e vengono smistate sotto tutte le altre, e, chissà se mai, verranno prese in considerazione! Che tristezza. Che mondo! Mi giro e rigiro nel letto, ma il caldo è sempre soffocante, e, nonostante il ventilatore acceso, è impossibile stare a letto, per cui decido di andarmi a sedere sulla poltroncina che si trova in giardino, dove c’è un po’ di fresco. Vedo le stelle che illuminano il cielo, e, come ogni sera, parlo con esse. Chissà quante persone parlano con le stelle e raccontano i fatti della loro vita e magari aspettano una ispirazione. Anche Dante Alighieri pensava alle stelle, ed infatti le Tre cantiche della Divina Commedia finiscono con riferemento alle stelle. L’Inferno: “E, quindi uscimmo a rivedere le stelle” Il Purgatorio: “Puro e disposto a salir a le stelle”. Il Paradiso:”L’Amor che move il sole e l’altrui stelle.” Avrei voluto conoscerlo, Dante Alighieri, così avremmo potuto parlare delle nostre consigliere. E, pensando a Dante, mentre guardo il cielo pieno di luci, voglio pensare che quando arriverà il momento del Grande Viaggio, potrò vedere le stelle da vicino, e, magari incontrerò Dante, che è stato inviato a ricevermi, e, dopo la presentazione: Ciao, io sono Dante, ciao, io sono Paolo, come vecchi amici andremo avanti a RIMIRAR LE STELLE.


03 settembre 2022

Il mio ritorno in Sardegna.

Oggi mi sono ricordato di quando ho viaggiato per l’Europa, da quando ho incominciato a lavorare e fino a poco tempo fa, quando sono tornato, scendendo in macchina da Vienna, ho provato una grande gioia di tornare a casa. Penso ancora che in Sardegna ci siano i paesaggi più belli, quello che mi raccontano di più. Più che le acque azzurre dei Caraibi o i prati verdi dell’Austria e cose del genere su una cartolina. Senza dubbio perché in qualche modo appartengo a questi paesaggi, e allo stesso tempo mi appartengono , in quel modo peculiare in cui ci appartiene ciò che è comune, ciò che facciamo e condividiamo tra molti.

Estendere un po' per me l'essere patriota – parola difficile di questi tempi – è amare se stessi, quando quello stesso siamo noi stessi: chi ti circonda, dove vivi. Bene, capisco che le nostre società non sono cose esterne a noi, ma piuttosto ciò che facciamo/siamo noi stessi, tra tutti noi, in base a ciò che i nostri padri e madri hanno fatto prima e prima dei nostri nonni e nonne.

Mi sono anche ricordato di Kennedy, quando diceva ai suoi concittadini: "Non si tratta di ciò che l'America può fare per te, ma di ciò che puoi fare per l'America". E un altro detto con molte versioni che suona più o meno così: "Non si tratta di ciò che la Sardegna può fare per te, ma di ciò che puoi fare per la Sardegna". Ed è per questo che, in particolare, mi sento responsabile e cerco di sentirmi orgoglioso del luogo in cui vivo, perché è il mondo alla cui costruzione partecipo. Anche se certamente, molte volte, troppe, ci sentiamo esclusi da questo potere di partecipare alla realizzazione del mondo in cui viviamo.  Capisco che possiamo avere risentimenti verso parte della nostra storia. Ma quando si studia un po' di storia e si conoscono altri paesi al di là del turismo superficiale, si vede che tutti gli stati - specialmente quelli più sviluppati e più o meno potenti - hanno anche essi i loro passati. Ma odiare o disprezzare la propria terra per me, allora, è come non amare se stessi; o per non riconoscere che siamo noi stessi a farlo ogni giorno, o perché rinunciamo a farlo: il nostro Paese, in fondo, inizia dalla nostra stessa casa, famiglia, quartiere, lavoro, amici e ambienti attraverso i quali ci muoviamo... E la cosa facile è incolpare gli altri e non vedere nessuna responsabilità in noi stessi...

Ma, beh, un po' di indulgenza con se stessi e gli amici: questo arrendersi impotente fa indubbiamente parte delle strategie di potere contemporanee: mega-organizzazioni e burocrazie, partiti politici, tecnologie, i cosiddetti mercati... Anche se ovviamente il proprio paese, la propria terra, anche se oggi potrebbe sembrare così, non è, o non dovrebbe essere almeno, come un centro commerciale o un ristorante di cui sono cliente-utente, che giudico da una posizione del tutto esterna, e se non mi piace, non ci andrò più... Non tutti vogliono o possono migrare. E alla fine, dove andare? In Inghilterra, in Francia, in Germania, in Austria? brrr. Ma questo è ciò in cui ci stanno trasformando, una popolazione-soggetto-utente, e dovremmo resistere. Io, ovviamente, resisto. Non mi arrendo, – anche se spesso lo penso.

Questo ritrovare la bellezza e l'emozione in ciò che è vicino – il paesaggio, la terra, le persone, l'arte, le forme di vita – è il modo di amare la vita, il mondo in cui viviamo e di amare noi stessi. Per me, paradossalmente, questo sarebbe anche il modo di essere universalista, anche internazionalista . Qualcosa come lo slogan forse stanco di pensare globale e agire localmente. 

Un'altra cosa diversa dalle patrie del cuore, sono le cose dei politici, degli stati e delle ideologie più o meno nazionaliste e delle strategie di potere tra gruppi più o meno di interesse. Alla fine, non credo che farà una grande differenza per i comuni sardi se la Sardegna diventa indipendente o meno. Anche se preferirei che accadesse. E quello che preferirei sarebbe un Paese in cui tutti potessimo sentirci più responsabili di poterlo costruire insieme. E, infine, anche se ho poca simpatia per il movimento indipendentista sardo, anche se capisco che senza dubbio hanno le loro ragioni. Ma non ci sono solo due ragioni ; è che ce ne sono molte.   


02 settembre 2022

Cosa penso del panorama politico italiano?

La prima cosa che mi viene in mente riflettendo sul panorama politico italiano è che si tratta di un sistema "distorto e inefficace".

Non è un problema esclusivamente italiano, perché lo ritengo strutturale alla forma politica della democrazia.
Come funziona la "democrazia"? Privilegiando certe scelte rispetto ad altre, in base al proprio gruppo d'appartenenza ideologica (ma oggi non esistono più neppure le ideologie!)... o più semplicemente pensando al proprio parco-buoi elettorale, se parlassimo di politici.

La nostra politica si basa sulla RAPPRESENTANZA e non sulla COMPETENZA...questo è il vero problema!
Il meccanismo naturale è questo: "se io sostengo questa tesi, in quanti voti elettorali si potrà tradurre?".
Un sistema assolutamente demagogico e finalizzato non ai reali bisogni e interessi del paese, ma del proprio successo personale.

La democrazia non pone alcun limite a questa istintiva tendenza degli uomini politici e dei partiti che li rappresentano. Mentre la società consumistica traduce tutto in corrispondente valore di denaro, i politici all'interno di essa traducono ogni pensiero e azione in possibili voti. Il risultato è che (per Costituzione) si creano molti fronti, chiamati poi ad una fusione innaturale in prossimità delle elezioni, quando si coagulano forzatamente in due fronti opposti, che poi si tradurranno in "governo" ed "opposizione".

Ipotizziamo che (per pura combinazione!) salga al governo una coalizione veramente capace, che in qualche anno riesca obiettivamente a dare un forte impulso al paese, risolva molti problemi, ecc. ecc.

Il nostro sistema parlamentare porta ad un ruolo distorto delle due parti contrapposte, come quello dei nostri tribunali, che mettono due opposte fazioni a recitare la parte dell'inquisitore e del difensore.
E' ovvio che ognuno dei due vorrà vincere lo scontro (prescindendo dalla reale innocenza o colpevolezza) e userà qualsiasi mezzo pur di riuscirci. Questo sistema uccide il principio cooperativo, che invece dovrebbe privilegiare nell'interesse superiore del paese.

Il risultato è che l'elettorato ne resta frastornato e disorientato, finendo inevitabilmente per allontanarsi dalla politica. La frase più diffusa da noi è: "tanto non cambia niente, tutti uguali". Se il cittadino ascolta gli esponenti governativi gli sembra che abbiano operato al meglio, così come se dà ascolto all'opposizione si convince che il governo è composto da incompetenti, ladri, bugiardi e via dicendo, che stanno mandando in malora il paese. Lo scontro danneggia parimenti entrambe le fazioni e le leggi che vengono prodotte saranno dei compromessi tra due o più idee opposte (idee opposte per "partito preso", non per convincimento razionale).

Il nostro sistema politico, poi, con due camere chiamate a valutare le stesse leggi, porta inevitabilmente le fazioni opposte a scontrarsi e boicottarsi e a inconcepibili lungaggini. E per giunta il nostro sistema mediatico di diffusione dell'informazione è distorto dalla consapevolezza che "solo una brutta notizia fa notizia", per cui anche un governo che agisca bene passa inosservato!

Le problematiche e le scelte cui è chiamata la gestione governativa sono tante e molto complesse, coinvolgendo strati sociali differenti, spesso con interessi opposti, economie nazionali che devono confrontarsi con tutto il resto del mondo, eredità tragiche del territorio devastato da precedenti politiche scellerate, esigenze di sviluppo e realizzazione di grandi opere, sistemi scolastici, salute pubblica, rapporti diplomatici e conflitti con paesi esteri, importantissime questioni etiche e morali, diritti di categorie da proteggere, evasione fiscale, sicurezza, insofferenze razziali, ecc. ecc.

Senza tirare in ballo il vostro particolare problema delle interferenze religiose e del mondo della finanza, dei sindacati e delle lobbies, che pur ci sono e che si fanno sentire pesantemente, condizionando e compromettendo ulteriormente le possibilità decisionali sui problemi sociali ed economici.
Pensiamo solamente a cosa succederebbe se un nuovo governo accogliesse l'idea che i trasporti di merci sarebbe molto meglio se viaggiassero su rotaia anziché su autostrade, intasando l'intero paese e intralciando milioni di altri lavoratori.

E' molto facile produrre scontento, rabbia e volontà di lotta, quando un progetto presenta una strada che deve passare proprio vicino a casa vostra, o una discarica nel vostro comune, o una nuova tassa contro la vostra categoria, e via dicendo. Fare leva sull'egoismo è prassi di politica quotidiana e serve solamente a bloccare i programmi o le necessità improrogabili. La nostra forma sociale è chiamata ogni giorno a scegliere tra sacrifici in nome del progresso, sacrifici in nome della qualità dell'ambiente, sacrifici in nome di una maggiore equità di distribuzione dei beni o dei diritti. Sempre sacrifici e mai vantaggi!
Pensiamo a come un ambiente ideale andrebbe inteso, ovvero: privo di asfalti, cementi, binari, fabbriche, case, aeroporti, ecc. ecc. Il cittadino da parte sua vorrebbe il massimo dei diritti senza piegarsi a nessun dovere, il ché è istintivo, ma impossibile e ingiusto.

Come dicevo, il problema vero è la corsa al potere, che innesca il principio di intolleranza, disfattismo e ostruzionismo verso l'operato del governo in carica, in vista di vantaggi per le successive elezioni.
Questo meccanismo in alcuni paesi non si presenta in toni così gravi come da noi. Negli Stati Uniti, per esempio, una volta eletto il nuovo presidente i due schieramenti politici concorrono pacificamente (o quasi) alla gestione politica del paese, sostenendo il più possibile il presidente incaricato (ma con gli occhi bene aperti a detronizzarlo in caso di gravi inadempienze, il ché mi sembra giusto).

In Italia non esiste il sistema presidenziale e forse non abbiamo ancora un sufficiente senso democratico e collaborativo per scegliere questo sistema politico.

Ma allo stato attuale la forma presidenziale resta a mio avviso la migliore auspicabile.
Ma veniamo alla differenza tra democrazia diretta e indiretta.

Mi sembra di poter escludere che il cittadino sappia occuparsi professionalmente e prendere decisioni valide su delicate e complicate questioni politiche.  Per questo motivo la delega al politico è indispensabile, anche se su alcune scelte di tipo sociale sarebbe sempre doveroso ricorrere al referendum popolare.
Ma non mi spingerei oltre, visto che poi i referendum sono facilmente elusi da leggi successive.
In una vera democrazia non ci dovrebbe essere, ad esempio, una legge che imponga l'obbligo alla vita e che neghi totalmente l'eutanasia o ponga limiti al testamento biologico.

 

01 settembre 2022

Gorbaciov, ultimo leader dell'Unione Sovietica.

Mikhail Gorbaciov, che come ultimo sovrano dell'Unione Sovietica ha combattuto una battaglia insormontabile per salvare un impero in declino ma ha portato a riforme straordinarie che hanno posto fine alla Guerra Fredda, è morto all'età di 91 anni.

Il Central Clinical Hospital ha dichiarato in una dichiarazione che Gorbaciov è morto dopo una lunga malattia. Non sono stati rilasciati ulteriori dettagli.

Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha dichiarato in una dichiarazione diffusa dalle agenzie di stampa russe che il presidente russo Vladimir Putin ha espresso le sue condoglianze per la morte di Gorbaciov e avrebbe inviato un telegramma ufficiale alla famiglia di Gorbaciov in mattinata.

Sebbene abbia guidato il governo per meno di sette anni, Gorbaciov ha scatenato una serie impressionante di cambiamenti. Ma lo superarono rapidamente, provocando il crollo dello stato sovietico, la liberazione delle nazioni dell'Europa orientale dal dominio russo e la fine di decenni di tensione nucleare tra Oriente e Occidente.

La sua caduta è stata umiliante. La sua autorità è stata irrimediabilmente minata da un tentativo di colpo di stato contro di lui nell'agosto 1991, e ha trascorso i suoi ultimi mesi in carica a guardare repubblica dopo repubblica dichiarare l'indipendenza, fino a quando non si è finalmente dimesso il 25 dicembre 1991. Il giorno dopo, l'Unione Sovietica ha iniziato il suo viaggio nell'oblio.

Gorbaciov ha vinto il Premio Nobel per la Pace nel 1990 per il suo ruolo nel porre fine alla Guerra Fredda e ha trascorso gli anni successivi a raccogliere premi e riconoscimenti in tutto il mondo. Ma era detestato nel suo paese.

I russi lo incolparono per il crollo dell'Unione Sovietica, un tempo una temuta superpotenza il cui territorio si era fratturato in 15 nazioni. I suoi ex alleati hanno preso le distanze e lo hanno reso il capro espiatorio per i problemi del loro paese.

La sua corsa alla presidenza nel 1996 è diventata una presa in giro nazionale, finendo con meno dell'1% dei voti.

Nel 1997 ha scelto di apparire in uno spot televisivo per Pizza Hut per raccogliere fondi per la sua fondazione.

"Nella pubblicità avrebbe dovuto prendere una pizza, dividerla in 15 fette come ha fatto con il nostro paese, e poi mostrare come rimettere tutto insieme", ha deriso Anatoly Lukyanov, un tempo suo sostenitore.

Gorbaciov non ha mai avuto intenzione di smantellare il sistema sovietico. Volevo solo migliorarlo.

Poco dopo aver assunto il potere, Gorbaciov iniziò una campagna per far uscire il suo paese dalla stagnazione politica ed economica, usando "glasnot" o apertura, per raggiungere il suo obiettivo di "perestrojka" o ristrutturazione.

Nella sua autobiografia, ha detto di aver trascorso molto tempo frustrato dal fatto che in un paese con immense risorse naturali ci fossero decine di milioni di persone che vivevano in povertà.

"La nostra società è stata soffocata nelle grinfie del sistema di comando burocratico", ha scritto. "Condannata a servire l'ideologia e sopportare l'enorme peso della corsa agli armamenti, è stata sottoposta a forti pressioni".

Una volta avviato, un movimento tira l'altro: ha liberato i prigionieri politici, ha consentito il dibattito aperto e le elezioni multi-candidato, ha dato ai suoi compatrioti la libertà di viaggiare, ha posto fine all'oppressione religiosa, ha ridotto i suoi arsenali nucleari, ha stabilito legami più vicini all'Occidente e non si è opposto la caduta dei regimi comunisti negli stati satelliti dell'Europa orientale.

Ma le forze che ha scatenato erano al di fuori del suo controllo.

Sono scoppiate tensioni etniche, che hanno portato a conflitti e problemi in luoghi come il Caucaso. Scioperi e disordini sindacali hanno seguito l'aumento dei prezzi e la carenza di prodotti di consumo.

In uno dei momenti più bassi del suo mandato, Gorbaciov autorizzò la repressione delle irrequiete repubbliche baltiche all'inizio del 1991.

La violenza si rivolse contro di lui molti intellettuali e riformatori. Le elezioni competitive hanno anche prodotto una nuova generazione di politici populisti che hanno sfidato le politiche e l'autorità di Gorbaciov.

Il più famoso di questi era il suo ex protetto ed eventuale nemesi Boris Eltsin, che divenne il primo presidente della Russia.

"Il processo di rinnovamento di questo paese e l'introduzione di cambiamenti fondamentali nella comunità internazionale si è rivelato molto più complesso di quanto inizialmente previsto", ha detto Gorbaciov alla nazione mentre lasciava l'incarico.

“Tuttavia, riconosciamo ciò che è stato raggiunto finora. La società ha acquisito la libertà; si è liberato politicamente e spiritualmente. E questo è il traguardo più importante, che non abbiamo assunto del tutto in parte perché non abbiamo ancora imparato a usare la nostra libertà”.

Mikhail Sergeyevich Gorbaciov è nato il 2 marzo 1931 nella città di Privolnoye, nel sud della Russia. Entrambi i suoi nonni erano contadini, presidenti di fattorie collettive e membri del Partito Comunista, proprio come suo padre.

L'agenzia di stampa ufficiale Tass ha riferito che Gorbaciov sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy a Mosca, dove giacciono i resti di sua moglie.