LA CAMPANA D’ISLANDA - PARTE PRIMA


Ci fu un tempo, dicono i libri, in cui il popolo islandese possedeva un unico bene valutabile in denaro. Una campana. Questa campana stava sulla facciata della corte di giustizia di Þingvellir sull’Öxará, appesa alla trave di colmo. La si suonava all’inizio delle udienze e alla fine delle esecuzioni capitali. Era talmente antica, la campana, che nessuno ne conosceva più l’età precisa. Ma al principio di questa storia era crepata da tanto tempo, ed erano piuttosto anziani quelli a cui pareva di ricordarne un rintocco più limpido. Eppure i vecchi erano affezionati alla campana. In presenza del governatore generale, del magistrato e del boia, dell’uomo da decapitare o della donna da annegare, era spesso possibile, nelle quiete giornate di mezz’estate, alla brezzolina che spirava dalle cime delle Súlur o al profumo di boscaglia dei Bláskógar, udire l’eco della campana mescolarsi al mormorio delle acque dell’Öxará. Ma l’anno in cui un’ordinanza ingiunse agli islandesi di consegnare al re tutto l’ottone e il rame, perché occorreva ricostruire Copenaghen dopo la guerra, vennero mandati uomini anche qui, a far visita all’antica campana di Þingvellir sull’Öxará. Pochi giorni dopo lo scioglimento dell’Alþingi, dalla via a ovest del lago giunsero due uomini con alcuni cavalli da soma, discesero il pendio della faglia al di là della foce del fiume e attraversarono il guado. Smontarono di sella al margine del campo di lava davanti al tribunale, l’uno pallido e con guance paffute, occhi piccoli e braccia conserte come i bambini quando giocano a fare i gran signori, in una veste gentilizia sdrucita che gli andava troppo stretta; l’altro scuro, cencioso e brutto. Dal campo di lava arriva un vecchietto con il suo cane e si para di fronte ai viandanti.
«E chi sono lorsignori?»
Quello grasso risponde:
«Io sono il mandatario di Sua Maestà e suo boia.»
«Nientemeno», borbottò il vecchietto con una voce roca che sembrava venire da lontano.
«Però chi comanda è il Creatore.»
«Ho una lettera patente», disse il mandatario del re.
«Immagino», rispose il vecchietto. «Ormai tutti hanno lettere. Ogni sorta di lettere.»
«Mi dai del bugiardo, vecchiaccio?» ribatté il mandatario del re.
Al che l’anziano non si arrischiò ad appressarsi ai viandanti, ma si sedette sul muretto cadente che circondava il terreno del tribunale e li osservò.
Non aveva nulla di diverso da qualunque altro vecchietto: barba grigia, occhi rossi, berretto a tubo, gambe nodose, mani livide strette intorno al bastone a cui si appoggiava con sguardo vacillante. Il suo cane procedette oltre il muretto e annusò gli uomini senza abbaiare, com’è costumanza dei cani dalla ferocia dissimulata.
«Una volta nessuno aveva lettere», mormorò l’anziano fra sé e sé.
Allora il moro che accompagnava il pallido esclamò: «Ben detto, compare.
Gunnar di Hlíðarendi non aveva nessuna lettera.»
«Tu chi sei?» chiese l’anziano.
«Ah, è un ladro di fili da pesca di Akranes, è rimasto chiuso nella Furfantaia di Bessastaðir fin da Pasqua», rispose il mandatario del re, dando un calcio rabbioso al cane.
Il moro prese la parola con un sogghigno che fece baluginare i denti bianchi. «Ecco il boia reale di Bessastaðir. Tutti i cani gli pisciano addosso.»
L’anziano sul muretto in rovina non disse nulla e nemmeno la sua espressione rivelò alcunché, ma continuò a osservarli battendo appena un poco le palpebre con uno sguardo esitante.
«Arrampicati quassù, Jón Hreggviðsson, pendaglio da forca che non sei altro», ordinò il boia reale, «e recidi la corda che regge la campana.
Mi viene da ridere se penso che il giorno in cui il mio Graziosissimo Sovrano mi ordinerà di legarti la corda al collo in questo posto, non suonerà nessuna campana.»
«Niente sbeffeggi, bravi giovani», disse l’anziano.
«Questa è una campana antica.»
«Sei un uomo del prete?» disse il boia reale.
«Allora digli da parte mia che qui non sentiamo ragioni. Abbiamo procure per requisire diciotto campane, diciannove con questa. Le facciamo a pezzi e le carichiamo sulla nave che parte da Reykjavík. Non devo rendere conto a nessuno se non al re.» Prese un pizzico dalla tabacchiera senza offrirne al compagno di viaggio.
«Iddio benedica il re», disse il vecchietto.
«Tutte le campane di chiesa che una volta erano del papa sono adesso del re. Ma questa non è una campana di chiesa. Questa è la campana d’Islanda. Io sono nato qui, sulla piana di Bláskógaheiði.»
«Hai tabacco?» chiese il moro.
«Questo boia d’un boia non si spreca a offrirne un pizzico.»
«No», rispose l’anziano. «Noi di qui non ne abbiamo mai avuto, di tabacco. È stata un’annata dura. I miei due nipoti sono morti a fine aprile. Io sono avanti negli anni. Ma questa campana è sempre appartenuta all’Islanda.»
«Hai un attestato che lo provi?» domandò il boia.
«Mio padre nacque qui, sulla Bláskógaheiði», disse il vecchietto.
«Niente appartiene a nessuno senza un attestato», disse il boia reale.
«Credo che stia scritto in certi vecchi libri», disse l’anziano, «che quando quelli del continente arrivarono su questa terra inabitata trovarono la campana in una grotta sul mare, insieme a una croce che poi è andata persa.»
«La mia lettera è firmata dal re, dico io», ribatté il boia.
«E tu, ladro d’un moro d’un Jón Hreggviðsson, fila subito sul tetto.»
«Questa campana non può essere fatta a pezzi», disse il vecchietto alzandosi.
«Non può essere portata alla nave a Reykjavík. Accompagna l’assemblea dell’Öxará fin da quando è stata fondata, ben prima dell’epoca del re; anche prima di quella del papa, secondo certuni.»
«Non m’interessa», disse il boia reale.
«Copenaghen risorgerà. È infuriata una guerra, e gli svedesi, servitori del demonio e popolo ri- 13 pugnante, hanno preso la città a colpi di bombarda.»
«Mio nonno abitava a Fíflavellir, laggiù, in mezzo alla Bláskógaheiði», disse il vecchietto, come se stesse per raccontare una lunga storia. Ma venne interrotto. Mai sovrano dal braccio possente vorrà affibbiare una graziosa spilla… Il ladro moro Jón Hreggviðsson, a cavalcioni della tettoia con i piedi che sporgevano in fuori, stava intonando le Rímur di Pontus anteriori.
La campana era fissata alla trave con una fune robusta. Lui la recise con un’accetta e la campana cadde sul lastricato davanti alla porta dell’edificio. … affibbiare una graziosa spilla, a meno ch’ella non sia giovane e ricca!
«E adesso salta fuori che il mio Graziosissimo Signore Ereditario si sarebbe preso una terza concubina», aggiunse Jón Hreggviðsson dalla cima della tettoia, come per annunciare la notizia al vecchietto, poi guardò il filo della lama dell’accetta.
«E pare sia la più grassa di tutte. Ecco la differenza fra me e Siggi Snorrason.»
Il vecchietto non rispose.
«Queste parole ti costeranno care, Jón Hreggviðsson», disse il boia.
«Gunnar di Hlíðarendi non sarebbe certo scappato di fronte a un trippone smorto di Álftanes», disse Jón Hreggviðsson.
Il pallido mandatario prese dal bagaglio un mazzuolo, sistemò l’antica campana d’Islanda sul lastricato, lo levò in alto e le diede una martellata. Ma quella non fece altro che scivolare leggermente di lato con un gemito sordo. Jón Hreggviðsson gridò dalla tettoia:
«“Sul morbido le ossa non si spezzano, brav’uomo”, diceva Björn di Öxl.»
Ma quando il boia reale ebbe riposizionato la campana in modo da colpirla sul bordo interno, ecco che quella si spaccò in due. Il vecchietto era tornato a sedersi sul muretto diroccato. Con lo sguardo vacillante e perso nel vuoto strinse le mani nodose intorno al bastone. Il boia prese un altro pizzico di tabacco. I talloni di Jón Hreggviðsson spuntavano dalla tettoia.
«Hai intenzione di cavalcare l’edificio fino a sera?» gridò il boia al ladro.
Dal tetto del tribunale Jón Hreggviðsson cantò: Mai con braccio possente affibbierò la giovane spilla dal letto d’un vermiciattolo a meno ch’ella non sia grassa e ricca! Raccolsero i frammenti in una sacca, che appesero al pomolo di una sella, dall’altra parte rispetto al mazzuolo e all’accetta. Poi rimontarono in groppa. Il moro partì per primo trainando per le redini anche gli altri cavalli in fila. Il pallido seguì lasciandosi condurre secondo creanza.
«Arrivederci, rimbambito dei Bláskógar», disse.
«Porta i miei saluti – e quelli di Dio – al parroco di Þingvellir, e digli che è passato di qui Sigurður Snorrason, mandatario e boia di Sua Altezza Reale.»
 Jón Hreggviðsson cantò: Avanza, avanza con i suoi il fiero sovrano, e con fanciulle il fiero sovrano, e con fanciulle il fiero sovrano, e con fanciulle, frangon ferro gli stallo-o-oni. Uno dietro l’altro se ne tornarono da dov’erano venuti, oltre il guado dell’Öxará, su per la scarpata al di là della foce e lungo il sentiero a ovest del lago che porta a sud, verso la Mosfellsheiði.  
A onor del vero, contro Jón Hreggviðsson non c’era uno straccio di prova, e nondimeno era stato incriminato, naturalmente. Per inciso, chiunque ne aveva l’opportunità rubava dai capanni dei pescatori dello Skagi nel corso delle dure primavere: alcuni pesce, altri filo da pesca. E ogni primavera era dura. Ma a Bessastaðir c’era sempre carenza di manodopera, perciò il governatore generale gioiva quando i prefetti mandavano i ladri ai lavori forzati nella sua casa di detenzione, altrimenti nota come Furfantaia, dove i sospettati di furto erano accolti allo stesso modo dei malviventi comprovati. All’inizio della stagione dello sfalcio, tuttavia, le autorità del Borgarfjörður scrissero al governatore generale pregandolo di rispedire il delinquente Jón Hreggviðsson a Rein, sulla penisola di Akranes, perché a casa sua, in assenza del capofamiglia, si moriva di fame. La fattoria sorgeva sulle pendici di una montagna, nel punto più a rischio di frane e valanghe. Il terreno, per un valore di sei vacche, apparteneva a Cristo. Anticamente un vescovo di Skálholt l’aveva donato a quel particolare contadino a condizione che l’usasse per far del bene a qualche vedova che fosse devota, costumata e con molti figli a carico, e qualora non ne avesse trovate nel mandamento di Akranes, che le cercasse in quello dello Skorradalur. Da molto tempo ormai non si trovavano vedove del genere in quei due mandamenti, ragion per cui Jón Hreggviðsson era divenuto locatario di padron Gesù. L’arrivo a casa fu com’era prevedibile, perché coloro che vi abitavano erano lebbrosi o scimuniti, se non ambedue le cose. Jón Hreggviðsson aveva alzato il gomito e cominciò subito a picchiare la moglie e il figlio demente. Le diede un po’ meno alla figlia quattordicenne che gli rideva in faccia e all’anziana madre che lo abbracciò in lacrime. La sorella e la zia, entrambe lebbrose, l’una glabra e paralitica, l’altra nodosa e piena di ulcere, se ne stavano curve con i loro fazzoletti neri in testa accanto al letamaio, tenendosi per mano e lodando Dio. L’indomani il bifolco uscì ad affilare la falce, e poi cominciò a far fieno, cantando ad alta voce le Rímur di Pontus anteriori. Le due in fazzoletto nero si trascinarono al margine del campo e si misero ad armeggiare con un rastrello. Il demente e il cane si sedettero su una zolla erbosa. La figlia si fermò sulla soglia di casa, a piedi nudi e con una mantellina lacera, a sentire il profumo del fieno appena tagliato, nera e bianca e magra. Il comignolo fumava. Passarono alcuni giorni. Accadde allora che a Rein arrivò un giovane uomo con un buon cavallo e un gran contegno, per trasmettere a Jón Hreggviðsson una convocazione di lì a una settimana da parte del prefetto di Akranes. Il giorno prefissato Jón sellò il suo vecchio ronzino e andò ad Akranes. Ci trovò il boia Sigurður Snorrason. I due ricevettero da bere un po’ di siero di latte inacidito. Il tribunale, riunito nel salotto del prefetto, accusò Jón Hreggviðsson di aver vilipeso, a Þingvellir sull’Öxará, Sua Eccelsa e Serenissima Maestà, conte di Holstein nonché nostro Graziosissimo Sovrano Ereditario e Signore, con assurde bestialità del tipo che il nostro summenzionato Sire si sarebbe preso tre concubine fuori dal matrimonio. Jón Hreggviðsson negò recisamente di aver mai pronunciato parole del genere sul suo amato Sovrano e Graziosissimo Signore, Eccelsa e Serenissima Maestà nonché conte di Holstein, e chiese se vi fossero testimoni. Sigurður Snorrason giurò che le parole di Jón Hreggviðsson erano state quelle. Jón Hreggviðsson chiese di poter controtestimoniare, ma era vietato ascoltare due deposizioni giurate contrastanti nel corso della stessa udienza. Vedendosi respingere la richiesta, il bifolco dichiarò che in effetti aveva pronunciato proprio quelle parole – alla Furfantaia di Bessastaðir erano sulla bocca di tutti –, ma non certo con l’intento di mancare di rispetto al suo re, anzi, intendeva al contrario cantare le lodi di un sovrano così grandioso da avere ben tre concubine, in aggiunta alla regina. Oggetto della sua burla era semmai l’amicone Sigurður Snorrason, che a memoria d’uomo non aveva mai avuto compagnia femminile. Ma pur avendo di fatto pronunciato quelle parole riguardo a nientemeno che il suo Graziosissimo Sire, nutriva la speranza che Sua Maestà volesse benevolmente perdonare a un povero straccione mentecatto certe farneticazioni. La sentenza stabilì che Jón Hreggviðsson dovesse pagare al re tre talleri entro un mese, pena la flagellazione, e precisò che si era tenuto conto «non tanto del numero di testimoni, quanto della loro attendibilità». E con ciò Jón Hreggviðsson se ne tornò a casa. A parte questo, il periodo della fienagione fu privo di eventi degni di nota. Ma il bifolco si guardò bene dal pagare la sua multa al re. In autunno si tenne un’assemblea nella Kjalardalur. Jón Hreggviðsson vi fu convocato e due proprietari terrieri vennero incaricati dal prefetto di accompagnarlo. La madre gli rattoppò le scarpe prima che partisse. La giumenta del bifolco di Rein era zoppa per cui il viaggio procedette più lento del previsto e arrivarono nella Kjalardalur solo verso sera, quando l’assemblea si stava concludendo. A quel punto emerse che Jón Hreggviðsson doveva essere fustigato seduta stante, con ventiquattro frustate. Sigurður Snorrason si era presentato con le sue cinghie e il mantello da boia. Molti contadini erano già ripartiti per tornare a casa, ma diversi giovanotti delle fattorie più vicine vennero ad assistere al supplizio per svagarsi un poco. Le fustigazioni si tenevano in un cortile chiuso da un muretto che d’estate era adibito alla mungitura delle pecore, diviso a metà da una mangiatoia su cui veniva fatto stendere il reo per infliggergli la pena. I notabili presenti si posizionavano agli angoli del cortile, sui due lati della mangiatoia, mentre i bambini, i cani e i vagabondi stavano sul muretto. Quando Jón Hreggviðsson venne condotto nel cortile vi si era radunato un gruppetto di persone. Sigurður Snorrason si era allacciato al collo il mantello da boia e aveva già recitato il Padrenostro; il Credo lo riservava alle decapitazioni. Prese dal borsello le sue cinghie, le accarezzò con solennità e premura e controllò coscienziosamente le impugnature, in attesa del prefetto e dei testimoni dell’assemblea – aveva  mani grosse, livide e screpolate, le unghie sfaldate. I due proprietari terrieri tennero fermo Jón Hreggviðsson mentre Sigurður Snorrason faceva le prove con le cinghie. Pioveva. I presenti avevano un’aria distratta, come sovente accade quando piove, e i giovanotti infradiciati sgranavano gli occhi; i cani sembravano in foia. Jón Hreggviðsson cominciò a spazientirsi: «Avanti, ché le sgualdrine ci stanno aspettando, Siggi Snorrason.»
Alcuni volti si aprirono in un sorriso indolente e senz’allegria.
«Ho finito di recitare il Padrenostro», disse il boia imperturbabile.
«Facci sentire anche il Credo, brav’uomo», rispose Jón Hreggviðsson.
«Oggi no», ribatté Sigurður Snorrason, e sorrise.
«Un’altra volta.» Accarezzò le cinghie con delicatezza, lentamente e teneramente.
«Dovresti fare almeno un nodo a quelle benedette cinghie, Siggi», disse Jón Hreggviðsson.
«Non foss’altro che per amore della regina.»
Il boia non rispose.
«Da quando in qua un notabilissimo funzionario del re come Sigurður Snorrason deve tollerare parole di dileggio dalla bocca di Jón Hreggviðsson?» disse un vagabondo sul muretto, nello stile delle antiche saghe. «Il mio caro beneamato re», disse Jón Hreggviðsson.
Sigurður Snorrason si morse il labbro e fece un nodo alle cinghie.
Jón Hreggviðsson rise con un luccichio negli occhi e i denti bianchi baluginarono in mezzo alla barba nera. «Un nodo per la prima sgualdrina», disse.
«Non è certo un mollaccione, lui. Avanti, ancora un altro, brav’uomo.»
Gli astanti cominciarono a farsi inquieti, come davanti a due giocatori tra cui la posta è molto alta.
«Oh servitore di Sua Altezza Reale, ricordati del nostro Sire!» esortò in tono da sermone una voce dal muretto, la stessa che prima aveva parlato nello stile delle antiche saghe, e il boia, deducendo che tutti i presenti parteggiassero per lui e per il re, si guardò intorno con un sogghigno, da un lato all’altro del cortile, facendo un secondo nodo alle cinghie. Aveva denti piccoli e separati da spazi vuoti che lasciavano scoperte le gengive.
«Ed ecco che tocca all’ultima, la più grassa», disse Jón Hreggviðsson.
«Molti bravi uomini hanno tirato le cuoia mentre ancora veniva annodata.»
In quel momento arrivò il prefetto insieme ai due testimoni proprietari terrieri; si fecero largo tra la folla ed entrarono nel cortile. Videro che il boia stava annodando le cinghie e, facendo presente che quello era un luogo di giustizia, non di pagliacciate, il prefetto gli ordinò di sciogliere i nodi. Dopodiché lo pregò di mettersi all’opera. All’ordine di spogliare il bifolco, la mangiatoia venne coperta con un panno di lana. L’uomo vi venne fatto distendere bocconi e Sigurður Snorrason gli sfilò le brache e la camicia. Il bifolco era magro ma vigoroso, con una muscolatura in rilievo che scattava a ogni movimento; a parte la leggera peluria nera che dalle natiche sode scendeva fino all’incavo delle ginocchia, il corpo era bianco.  Sigurður Snorrason si fece il segno della croce, sputò sui palmi e si mise al lavoro. Sotto le prime sferzate Jón Hreggviðsson non fece una piega, ma alla quarta e alla quinta fu preso da spasmi che gli facevano sollevare di scatto le estremità – gambe, viso e parte superiore del petto – lasciandolo appoggiato soltanto sullo stomaco teso, con i pugni serrati, le caviglie flesse, le membra rigide e i muscoli duri; dalle suole delle scarpe, ora in mostra, si vedeva che erano appena state rattoppate. I cani montarono sul muretto abbaiando verso l’interno del cortile. All’ottava sferzata il prefetto disse che bisognava fare una pausa, il reo aveva diritto a una tregua. Per quanto il dorso non avesse ancora cominciato ad arrossarsi. Ma Jón Hreggviðsson non era interessato ad alcuna tregua, e attraverso la camicia tirata sopra la testa gridò: «Avanti, per il demonio!»
E con ciò l’opera venne ripresa senza ulteriori indugi. Alla dodicesima sferzata il dorso di Jón Hreggviðsson era piuttosto tumefatto, e alla sedicesima comparvero le prime lacerazioni all’altezza delle scapole e dell’incavo della schiena. I cani sul muretto latravano come ossessi, mentre l’uomo restava disteso immobile e rigido come un ciocco. Alla sedicesima sferzata il prefetto disse che al reo spettava di nuovo una tregua.
Lo si sentì urlare: «Ancora, ancora, ancora…»
Il boia reale tornò a sputarsi sui palmi e accomodò la presa sull’impugnatura.
«Ed ecco che attacca con l’ultima, la più  grassa», disse l’uomo sul muretto, scoppiando in una risata interminabile.
Sigurður Snorrason avanzò di un passo con il piede sinistro e con il destro tentò di trovare un punto saldo nel terreno sdrucciolevole del cortile, si morse un labbro e si accinse a sferrare il colpo. Il brillio negli occhi socchiusi era segno dell’estrema diligenza con cui si apprestava all’esercizio delle sue funzioni; si fece paonazzo. I cani non smettevano di abbaiare. Alla ventesima sferzata il sangue sgorgava ormai da tutta la lunghezza del dorso del bifolco e le cinghie erano bagnate e scivolose. Ora che l’opera volgeva al termine gli schizzi volavano da ogni parte, anche in faccia ai presenti, la frusta era calda e schiumante, la schiena dell’uomo un’unica piaga sanguinante. Quando le autorità fecero cenno di smettere, il bifolco era provato, ma non tanto da non opporre un rifiuto a chi si offriva di aiutarlo a rimettersi le brache, anzi, con un luccichio negli occhi rise in faccia agli uomini, ai cani e ai bambini sul muretto, e i denti bianchi balenarono in mezzo alla barba nera. Mentre rimetteva le bretelle declamò a squarciagola questi versi delle Rímur di Pontus anteriori: Fastosa festa diede il santo padre per ilari imperatori e sovrani, briosi bevver loro e i cortigiani. Era calata la sera quando anche quelli che si erano attardati all’assemblea tornarono a casa, ogni gruppo nella propria direzione. Gli ultimi a partire furono il prefetto e i due testimoni, i proprietari terrieri Sivert Magnussen e Bendix Jónsson, insieme ad alcuni contadini della penisola di Akranes e al boia Sigurður Snorrason, senza dimenticare Jón Hreggviðsson di Rein. Bendix Jónsson abitava a Galtarholt e, dato che gli uomini di Akranes avevano ancora molta strada da fare, li invitò tutti a rifocillarsi a casa sua prima di proseguire il viaggio. Bendix, che era un gran signore, teneva in dispensa un barile di acquavite. Offrì in prestito a Jón Hreggviðsson una lenza, un nobile gesto, data la penuria di attrezzature da pesca e la carestia che imperversava in quelle campagne. In fondo alla dispensa c’era un impiantito chiuso da un divisorio, e fu lì che il padrone di casa condusse il prefetto, il boia reale e il gran signore Sivert Magnussen, mentre nell’andito, sulle imbottiture da sella e sulle casse di farina, fece accomodare i tre popolani insieme al fustigato. Bendix riempì subito i bicchieri e la dispensa si animò in una gran baldoria generale. Ben presto ogni distinzione tra andito e impiantito divenne superflua. Gli uomini si sedettero in cerchio nell’andito e diedero inizio a una ridda di racconti, dispute, poesie e altri svaghi. Scordarono in fretta i dissapori di quel giorno ed espressero la loro mutua fratellanza con strette di mano e abbracci. Il boia reale si prostrò a terra a baciare i piedi di Jón Hreggviðsson piangendo, mentre il bifolco agitava il bicchiere cantando. Il gran signore Bendix era l’unico sobrio in tutto il gruppo, come si conviene a un assennato anfitrione. Era ormai notte fonda quando gli uomini ripartirono da Galtarholt, tutti ubriachi a dovere. E a causa della sbronza colossale si smarrirono non appena furono usciti dal cortile, ritrovandosi all’improvviso in un lercio acquitrino, con pozze profonde, pantani, stagni e torbiere. La palude sembrava non avere fine e i viandanti rimasero intrappolati in quell’anticamera dell’inferno per buona parte della notte. Il gran signore Sivert Magnussen finì in una torbiera e invocò il nome di Dio. Dato che in acque di quel genere era usanza annegare i cani, i compagni di viaggio impiegarono parecchio tempo a ripescare il proprietario terriero, avendo difficoltà a discernere ciò che era uomo vivente da ciò che era cane morto. Finalmente riuscirono a trarlo all’asciutto, quasi solo per grazia di Dio, e lì s’addormentò. L’ultima cosa che ricordava Jón Hreggviðsson era di aver provato a risalire in groppa alla sua giumenta dopo aver ripescato il gran signore Sivert Magnussen dalla torbiera. Ma la sella era priva di staffe e in più la cavalla sembrava cresciuta in altezza, senza contare che scalciava di continuo. Se vi fosse infine rimontato o se nel gran buio di quella notte d’autunno fosse intervenuto qualcosa a impedirgli l’impresa, non seppe poi rammentarlo con precisione. All’alba svegliò tutta Galtarholt, in condizioni pietose, inzaccherato e zuppo, battendo i denti e chiedendo del gran signore Bendix. Era in groppa al cavallo del boia e aveva il cappuccio del boia in testa. Bendix l’aiutò a smontare, lo trascinò in casa e lo fece coricare a letto. Il bifolco era tutto dolorante e si stese bocconi per via del dorso gonfio di sferzate, ma prese sonno all’istante. Verso le nove, quando si risvegliò, chiese a Bendix di accompagnarlo all’acquitrino, poiché aveva perso il cappello, i guanti, il frustino, la lenza e la giumenta. La giumenta era in mezzo a un gruppo di cavalli a breve distanza dai pantani con la sella che le penzolava sotto il ventre. L’acquitrino non era poi così ampio com’era apparso quella notte. Cercarono per un po’ gli oggetti perduti lungo un corso d’acqua dove Jón Hreggviðsson ricordava di essersi coricato, e videro infatti sulla riva l’affossamento lasciato dal suo peso, il frustino ancora stretto nel guanto e, lì accanto, la lenza. Qualche passo più a valle trovarono il boia morto. Era in ginocchio, incastrato fra le sponde, in un punto in cui il ruscello era talmente stretto che il suo corpo bastava a ostruirlo. Così aveva formato una sorta di diga e l’acqua, che normalmente sarebbe arrivata appena all’altezza del ginocchio, saliva ora fino alle ascelle. Gli occhi e la bocca del cadavere erano chiusi. Bendix osservò la scena per un istante, poi si rivolse a Jón Hreggviðsson e gli chiese:
«Come mai hai in testa il suo cappuccio?»
«Mi sono svegliato a testa nuda», rispose Jón Hreggviðsson.
«Ho fatto qualche passo e ho trovato questo cappuccio. Ho gridato: “Oh oh”, ma nessuno mi ha risposto, così me lo sono messo.»
«Come mai ha gli occhi e la bocca chiusi?» chiese ancora il gran signore Bendix.
«Lo sa il diavolo», disse Jón Hreggviðsson.
«Non sono mica stato io a metterlo qui.»
Fece per raccogliere il frustino, il guanto e la lenza, ma Bendix gli sbarrò la strada e disse:
«Al posto tuo, prima chiamerei sei testimoni a esaminare la situazione.»
Era domenica. Andò a finire che Jón Hreggviðsson cavalcò fino a Saurbær e si rivolse ad alcuni dei fedeli che si trovavano in chiesa, chiedendo loro di venire a esaminare il cadavere del  boia Sigurður Snorrason nella posizione in cui era stato trovato. Furono in tanti a seguirlo, per la curiosità di vedere il boia morto, e sei di loro si dichiararono disposti a giurare di non aver visto sul cadavere alcun segno di aggressione, né alcuna altra prova d’intervento umano, eccetto il fatto che gli occhi, il naso e la bocca fossero chiusi. Il corpo del boia fu trascinato a Galtarholt, dopodiché ognuno se ne tornò a casa propria.


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