29 maggio 2023

Quanto tempo ha il tempo!

Il miglior documentario sul tempo che abbia mai visto è su Netflix dal titolo “Quanto tempo ha il tempo” con la partecipazione del sociologo Domenico De Masi. .

“Quanto tempo ha il tempo” parla del nostro rapporto con il tempo e, di conseguenza, del nostro rapporto con noi stessi. Come ogni buon film, non ti presenta conclusioni: si fida della tua capacità di raggiungerle da solo. E poi forse concluderai che tutta la tua vita è solo una questione di tempo.

Primo, vuoi un mondo migliore per te stesso. Dopo un po' di tempo, vuoi essere una persona migliore per il mondo. Primo, vuoi dimostrare le cose agli altri. Dopo un po', vuoi dimostrare le cose a te stesso. Dopo un po', non hai più voglia di provare niente, solo allora assapori la vera libertà.

In primo luogo, senti che tutti gli amori sono l'amore della tua vita. Dopo un po', capisci che il vero amore non si manifesta così facilmente. Dopo un po' di tempo, alla fine disimpara ad amare. Innanzitutto, hai molte certezze. Dopo un po' di tempo, sei pieno di dubbi. Dopo un po', ci sono cose che davvero non vuoi sapere.

Per prima cosa, custodisci attentamente i tuoi ricordi. Dopo un po' di tempo, la tua memoria diventa più selettiva. Dopo un po', senti un bisogno improvviso e inspiegabile di imparare a dimenticare: la vita, pensi, consiste fondamentalmente nell'oblio.

Primo, ti apprezzi troppo. Dopo un po', ti sminuisci troppo. Dopo un po' di tempo, ti rendi conto della tua insignificanza e capisci che, in un universo infinito, non importa come verrai ricordato e ancor meno conta il tuo giudizio personale: noi siamo polvere di stelle.

Primo, sopravvaluti la vita. Dopo un po' la disprezzi. Dopo un po' di tempo, ti diverti.

Innanzitutto, vuoi che il tempo passi. Dopo un po' di tempo, vuoi solo avere più tempo. Dopo un po' di tempo, finalmente capisci che il tempo è una bugia.

16 mesi dall'invasione Russa in Ucraina

Sono passati 16 mesi da quando Putin ha deciso di invadere l'Ucraina . Quella che doveva essere una rapida occupazione è diventato il più grande conflitto armato in Europa dalla seconda guerra mondiale, e uno degli eventi che segneranno la storia geopolitica del XXI secolo. Tuttavia, si è rivelata una guerra "atipica" dal punto di vista strategico.

Il piano iniziale di Putin prevedeva una 'rapida' occupazione dell'Ucraina, il cui obiettivo era prendere il controllo di Kiev in pochi giorni e imporre le proprie regole al governo ucraino. 

La guerra, ad oggi, ha provocato la morte di oltre 200.000 soldati russi, un'enorme perdita di equipaggiamento militare e l'economia europea, lontana dalla recessione e dall'infausto soffocamento che Mosca aveva promesso a causa dell'aumento vertiginoso dei prezzi del gas e del petrolio.

Nel frattempo, la guerra ha eroso il potere relativo della Russia e ha ingrandito quello dei suoi rivali in modi mai visti prima del conflitto.

Putin ha lanciato il conflitto con un'intenzione di restaurazione imperiale nello specchio dell'opera di Pietro il Grande, paradossalmente europeista. Non si trattava solo di rafforzare la sicurezza della Federazione, come sostengono coloro che spiegano l'azione russa come una reazione all'audacia della Nato.

Questa invasione ha cercato più chiaramente di ricostruire le sfere di influenza russe , un concetto geopolitico che sembrava bloccato negli archivi dalla fine della Guerra Fredda.

Putin ha rotto quella struttura e si è rinchiuso nell'oscurità personalistica di un regime modellato su quello di Stalin, del soffocamento dell'informazione, della persecuzione di ogni idea politica o culturale alternativa, e di una deviazione messianica nel suo sistema decisionale .


17 maggio 2023

ELEZIONI: LA SINISTRA SI AGGRAPPA AL “PARADIGMA BRIANZOLO”

Per chi non se ne fosse accorto domenica e lunedì scorsi si sono recati alle urne circa 4,5milioni di cittadini per rinnovare le amministrazioni di 595 comuni delle regioni a statuto ordinario, mentre in 165 comuni delle regioni a Statuto speciale si andrà alle urne i prossimi 28 e 29 maggio. Tra i comuni al voto anche 13 capoluoghi di provincia. I risultati del primo turno, nelle città-capoluogo, non hanno riservato particolari sorprese. Segno che sulle elezioni comunali, dove maggiormente incide il rapporto di prossimità eletto-elettore, la scossa all’azione di governo non c’è stata. Né in positivo, né in negativo. Anche l’affluenza è stata tutto sommato soddisfacente visto che rispetto al precedente dato del 2018, che fissava la partecipazione al 61,22 per cento, in quest’ultima tornata si è recato alle urne il 59,03 per cento degli aventi diritto. L’aver spalmato il voto su due giorni è servito.

All’esito del primo turno sono stati assegnati al centrodestra 4 capoluoghi (Imperia, Latina, Sondrio, Treviso) e due al centrosinistra (Brescia, Teramo). Occorrerà attendere il secondo turno tra due settimane per sapere chi alla fine si sarà complessivamente aggiudicato questa tornata elettorale. Sia chiaro: si tratta di curiosità accademica, visto che sul terreno della politica nazionale il risultato non modificherà i rapporti di forza esistenti tra i partiti. Non inciderà sulla linea del Governo né potrà essere utilizzato dalle opposizioni per asserire il supposto fallimento della maggioranza di centrodestra.

Comunque, a Imperia il vecchio ras forzista, Claudio Scajola, l’ha spuntata alla grande anche questa volta. Segno che lui e Imperia sono una cosa sola. C’è stato poi un ritorno a casa. La “destrissima” Latina, la mussoliniana Littoria, dopo essersi concessa in tempi recenti una scappatella a sinistra, è tornata all’antico. La candidata sindaco del centrodestra, Matilde Celentano, ha ottenuto il 70,68 per cento. Una percentuale di consenso quasi bulgara che la dice lunga sull’aria che tira dalle parti dell’Agro pontino. A fare da contraltare, a vantaggio del centrosinistra, c’è il voto di Brescia. Lì, Laura Castelletti, vicesindaco dell’uscente Giunta di centrosinistra, ha conseguito il 54,84 per cento dei consensi. Di certo, è stata una poderosa sportellata al volto della Lega che aveva scommesso su un possibile ribaltamento della scena. Che poi a Sondrio abbia vinto il centrodestra non è una notizia. Al più, la notizia ci sarebbe stata a esito elettorale invertito. Il vero problema di questo tipo di elezioni è nella distorsione patologica del secondo turno, dove il ballottaggio si è trasformato in un mezzo di frustrazione del principio democratico, dacché un numero ristretto di votanti finisce per sovvertire la volontà espressa da un maggior numero di cittadini al primo turno. In genere, tale anomalia ha avvantaggiato i candidati del centrosinistra i quali, potendo contare su un mondo progressista capillarmente più strutturato sui territori, sono in grado di assicurarsi al secondo turno la partecipazione di una massa congrua di elettori. Al contrario del centrodestra, il quale notoriamente conta sul voto d’opinione di un pubblico assolutamente svincolato da logiche di appartenenza a partiti o ai corpi intermedi della società. È questa la ragione per la quale, nei 7 ballottaggi da affrontare, il centrodestra, pur essendo in vantaggio in 6 di essi (Ancona, Brindisi, Massa, Pisa, Siena, Terni) – solo a Vincenza il candidato del centrosinistra è avanti – corre il rischio di perdere ovunque. Lo si può definire “paradigma brianzolo”, dalla dinamica elettorale che, lo scorso anno, ha portato il candidato del centrodestra alle Comunali di Monza ad arrivare a un soffio dalla maggioranza assoluta al primo turno e perdere malamente al ballottaggio.

Ma raccontiamo meglio ciò che accadde nel capoluogo della Brianza e perché potrebbe accadere nuovamente da altre parti. Il 16 giugno del 2022, la vittoria del candidato di centrodestra a Monza era data per scontata. Nella terra d’elezione del fenomeno Forza Italia, arricchita da una forte presenza della Lega, Silvio Berlusconi aveva appena compiuto il miracolo di portare la squadra di calcio cittadina ai fasti della massima serie per la prima volta nella storia centenaria del club sportivo. La popolazione festante avrebbe dovuto essergli grata. E lo fu. Ma solo a metà. Al primo turno, il forzista Dario Allevi, sindaco uscente, oggi convertito al “melonismo” di Fratelli d’Italia, ottenne 20.891 voti, pari al 47,12 per cento, contro lo sfidante di centrosinistra, Paolo Pilotto, fermo a 17.767 preferenze (40,08%). Sembrava fatta per Allevi. Invece, no. Accade che al ballottaggio, in luogo del 46,56 per cento dei votanti al primo turno si presenta al secondo turno solo il 36,82 per cento. Pilotto con 18.307 voti – 862 in più di Allevi che si ferma a 17.445 preferenze – vince. È un classico: 36.111 votanti hanno ribaltato la volontà di 45.664 cittadini di cui una parte andati alle urne al primo turno e in gita ai laghi al secondo turno. Si obietterà: se questa è la regola, il torto è degli assenti. Vero, ma se questa è la regola la si può cambiare. Dove sta scritto che il doppio turno debba essere un sistema di voto sacro e inviolabile? Lo sarà per la sinistra che ne ha sempre tratto enorme beneficio. Ciò spiega il perché un’Italia maggioritariamente di destra si ritrovi puntualmente a essere governata sui territori da una marea di sindaci di sinistra. Accadrebbe lo stesso a livello regionale se anche lì vi fosse il sistema del doppio turno. Per fortuna non c’è. Ed è per questo che abbiamo 15 governatori di centrodestra e non il contrario. È un dato antropologico, prepolitico: l’elettore di centrodestra è refrattario all’idea di doversi recare due volte al seggio per esprimersi sulla medesima sfida elettorale. Gli tagliamo la testa? Piuttosto, la politica gli venga incontro. Se questo centrodestra non ha il coraggio di cassare il ballottaggio per le elezioni comunali, almeno provi a temperarlo. Basterebbe modificare una frase del punto 4, articolo 72 (Elezione del sindaco nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti) del Capo III del Testo Unico sull’ordinamento degli enti locali – D.Lgs.267 del 2000. Al posto di “È proclamato eletto sindaco il candidato alla carica che ottiene la maggioranza assoluta dei voti validi” scrivere: “È proclamato eletto sindaco il candidato alla carica che ottiene il 40,01 per cento dei voti validi”. Sarebbe un’affermazione di giustizia democratica, oltre che di buonsenso, introdurre una soglia superata la quale il ballottaggio non sia necessario. Potrebbe rimanere per i casi in cui vi fosse una tale dispersione di voti tra i candidati del primo turno da non dare ad alcuno un pieno mandato di rappresentanza del corpo elettorale. Per una manciata di voti non si può annullare la volontà della maggioranza dei votanti e assegnare il giudizio finale a un più ristretto numero di elettori.

Si prenda l’odierno caso di Pisa. Il candidato del centrodestra, Michele Conti, ha ottenuto il 46,96 per cento dei voti (20.091). Davvero un’inezia dalla maggioranza assoluta, tanto che, a nostro giudizio, gli converrebbe chiedere un riconteggio perché è probabile che trovi negli errori commessi in sede di scrutinio i numeri mancanti per l’elezione al primo turno. Il suo sfidante, Paolo Martinelli della coalizione di sinistra “Tutti insieme appassionatamente – Cinque Stelle compresi”, ha ricevuto 16.534 preferenze (41,12%). Dunque, tra i due vi è stato uno scarto di 3.557 voti, che è significativo se si considera che i votanti sono stati il 56,43 per cento degli aventi diritto. Sebbene legittimo, non rispecchierebbe la volontà democratica un voto di ballottaggio segnato da una scarsa partecipazione che tuttavia ribaltasse il verdetto del primo turno.

Siamo ben consapevoli del fatto che, se il centrodestra provasse a ritoccare il sistema elettorale delle Comunali, la sinistra insorgerebbe gridando al golpe. Allora la domanda è: quanto questo centrodestra crede nella realizzazione della “democrazia decidente”? Urli pure quanto vuole la sinistra, ma è ora di piantarla con le partite elettorali falsate dai bizantinismi dei doppi turni. Non siamo in Champions League, dove c’è l’andata e il ritorno. Una sola tornata elettorale è sufficiente a garantire il pieno rispetto della sovranità popolare. Vince chi prende un voto in più sopra una certa soglia. E amen.

 

LA STUPIDITÀ DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE


Si dice “Intelligenza artificiale” e dovrebbe dirsi “stupidità artificiale”. Infatti, ben oltre l’enfasi retorica con cui molti mezzi di informazione inneggiano alle macchine “intelligenti” che ci renderanno facile la vita e al diffondersi della digitalizzazione quale strumento di connessione universale, bisogna intendere come, di intelligenza, nei computer – per quanto sofisticati e potenti – non vi sia traccia alcuna.

Va da sé che tali macchine, in grado di memorizzare una quantità pressocché sterminata di dati di ogni genere, possono anche essere adoperate per ragioni dominative, come per esempio violare la riservatezza di ciascuno di noi, oggi fatalmente messa in grave pericolo proprio dall’uso spregiudicato delle banche dati.

Ma in questa sede, intendo chiarire perché a regnare sovranamente in queste macchine sia la più genuina stupidità.

Possiamo in prima battuta rilevare – usando termini kantiani – che mentre ogni computer usa il giudizio determinante, nessuno di essi potrà mai accedere al giudizio riflettente.

Nella prima forma di conoscenza, si tratta di partire da concetti generali per giungere poi alla conoscenza del particolare, secondo il procedere tipico del computer al quale vengono forniti dai programmatori regole generali in grande quantità da adattare ai casi particolari.

È questa la modalità propria del sapere delle scienze empiriche, campo di conoscenza dell’intelletto. Si pensi alla medicina, la cui problematiche diagnostiche possono essere efficacemente affrontate e risolte da un computer al quale siano stati preventivamente forniti i concetti generali della patologia medica e chirurgica, da adattare al caso concreto da esaminare. Ovviamente, lascio fra parentesi il problema di enorme portata relativo al ruolo personale che il medico è chiamato a svolgere, dal momento che la macchina ne depotenzia la vocazione diagnostica da praticare attraverso l’esame diretto del paziente, senza alcuna mediazione preliminare: anche perché il vero problema del medico – oggi dimenticato – è prendersi cura del malato e non debellare la malattia.

Nella seconda forma di conoscenza – quella del giudizio riflettente – è il particolare che invece viene messo a disposizione e da questo occorre risalire all’universale, secondo un movimento opposto al precedente.

È questa la modalità propria del sapere delle scienze non empiriche, ma teoretiche (estetica, etica, diritto, poetica ecc.), campo di conoscenza della ragione.

Si pensi alla amministrazione della giustizia, ove l’utilizzo del computer appare impossibile, dal momento che è impossibile fornirgli tutti i dati concreti immaginabili, tenendo conto che non si può escludere si realizzi di fatto anche il “non immaginabile”. Per questo, nessun computer potrà mai sostituirsi al giudice: perché nel primo sono state immesse soltanto le regole, quelle di cui sono fatti i codici, ma non le eccezioni, costitutive invece della coscienza del secondo. Il computer potrà riempirsi – in misura ben maggiore del giudice – di milioni di regole, ma impazzirà di fronte ad una sola, imprevedibile eccezione. E d’altra parte, le eccezioni non sono prevedibili, altrimenti non sarebbero eccezioni, e per questo non potranno mai essere tutte immesse in un computer. Inoltre, nessun computer potrà mai comprendere e spiegare perché il “Sole nascente” di Monet sia bello o perché un verso di Rilke ci faccia capire della nostra esistenza meglio e di più di un trattato di psicologia.

In altre parole, il computer possiede, per dir così, attraverso un algoritmo, la grammatica della frase – cioè la sequenza logica dei termini che la costituiscono – ma ignora del tutto la semantica – vale a dire il suo senso, che poi è l’unica cosa che davvero conti.

Ecco perché anche il computer più potente del mondo (capace per esempio di risolvere correttamente e in un baleno equazioni a cento incognite), non potrà mai transitare dalla dimensione quantitativa a quella qualitativa, che sarebbe la sola cosa da fare per parlare in modo credibile di intelligenza artificiale, ma che nessuno potrà mai garantire, neppure fra mille anni.

Perciò il computer è per definizione stupido: perché incapace in linea di principio di cogliere il senso della realtà; di comprendere ciò che fa o che non fa; di conoscere il mondo e di auto-conoscersi. Esso potrà forse simulare gli effetti del cervello umano, ma in nessun caso potrà far proprie le ragioni della mente: l’abisso fra quello e questa rimane in linea di principio incolmabile.

Fa perciò solo sorridere leggere che un computer può scrivere poesie. Certo, potrà emettere sequenze di termini che siano già stati immessi dal programmatore, anche poeticamente evocativi, ma senza sapere ciò che fa: non sarà mai allievo della Musa.

Come un pappagallo che ripete continuamente ciò che gli è stato dato modo di sentire. Questo dunque forse il modo più acconcio di definire il computer: un raffinato (e costoso) pappagallo artificiale.