30 novembre 2023

Il fallimento della Zona Franca Integrale?

“Svelato l’inganno del presidente della giunta regionale, con l’approvazione a Strasburgo del nuovo codice doganale europeo, senza alcune modifica che riguardi le sorti dell’isola, ritengo si debba porre fine alle mistificazioni e alle suggestioni che da mesi si rincorrono sui tempi e sull’iter istitutivo della zona franca sarda” – tuona Giacomo Sanna, leader del Partito Sardo D’Azione rivolgendosi al suo (ormai ex) alleato Ugo Cappellacci.

Zona Franca

Ma cosa è successo? Mercoledì 11 settembre il Parlamento Europeo ha votato e ratificato il nuovo Codice Doganale dell’Unione Europea che di fatto esclude la Sardegna dai territori extradoganali europei e quindi mette un primo e pesante veto sull’istituzione della zona franca integrale nell’isola. Una mazzata per il presidente Cappellacci e per i comitati promotori che in questi mesi si sono battuti goffamente affinché la Sardegna potesse dotarsi di uno strumento impossibile da attuare senza un progetto e senza la stretta relazione tra il presidente della Regione e il Governo italiano. Inoltre senza contare la perimetrazione dell’isola sfora i limiti di extradoganalità previsti dal Codice dell’Unione Europea – sia quello vecchio, che quello nuovo.

A segnare l’impossibilità della zona franca integrale è la storia politica sarda, che oggi come tanti anni fa presenta una incognita importante. Infatti nel 1946, proprio il Partito Sardo D’Azione fu promotrice del primo progetto istitutivo della Zona Franca in Sardegna col beneplacito del governo nazionale che intendeva ripetere l’esperimento siciliano. La motivazione principale per cui il progetto non passò fu che il raffronto fra le entrate e le spese segnava per la Sardegna una forte passività ed escludeva per l’isola il veder le proprie casse integrate da fondi italiani. Inoltre la zona franca avrebbe fatto della Sardegna un mercato di consumo invece che un mercato di produzione. Era evidente, per chi sosteneva questa tesi, che il giorno in cui tutti avessero potuto importare nell’isola in assoluta esenzione doganale, il mercato sarebbe stato inondato di merci lavorate e tutti avrebbero avuto interesse a non fare diventare concorrenziali le imprese sarde. Esattamente gli stessi problemi che la Sardegna riscontra ancora oggi.

Il progetto di Statuto, diventato legge costituzionale nel gennaio del 1948, riservava così allo Stato italiano l’esclusiva competenza del regime doganale mentre alla Sardegna dava la possibilità di istituire dei punti franchi.

Né la storia né la legge però paiono gli argomenti preferiti di Cappellacci e della Randaccio, troppo presi a lottare per garantirsi un posto al sole dopo le prossime elezioni regionali. E non piacciono nemmeno ai membri dei comitati promotori, capaci di urlare ai quattro venti il dovere della Sardegna di diventare zona franca ma incapaci di creare una piattaforma credibile per la sua attuazione e di porre una dovuta analisi dei benefici e degli svantaggi che la zona franca porterebbe alla regione. Infatti per loro non sembra importante che al taglio delle accise e dell’Iva, la Sardegna perda tre miliardi di euro, veda le sue tasse sensibilmente aumentate e veda tutti i servizi tagliati. Insomma, il quadro è quello di una Sardegna destinata a star peggio di come attualmente vive.

Il tutto inizia il primo ottobre 2012 quando la dottoressa Randaccio annunciava che “Per istituire la zona franca c’è tempo fino al 24 giugno dell’anno prossimo, quando entrerà in vigore il nuovo Codice doganale aggiornato, che lascia vivere le vecchie zone franche ma vieta l’apertura di nuove. I tempi stringono, non abbiamo un minuto da perdere”. Un mese dopo il Parlamento Europeo decideva l’attuale codice e dava come data ultima di attuazione il primo novembre 2013. Cappellacci decideva però di inviare a Bruxelles due lettere in cui chiedeva di inserire la Sardegna tra i territori extradoganali. In realtà i tempi per emendare il nuovo codice erano scaduti, quindi non avrebbe raggiunto alcun risultato. Riuscì inoltre a sbagliare l’indirizzo delle due lettere suscitando l’ilarità dalla Comunità Europea. Nonostante ciò Cappellacci continuerà a perseverare.

Dopo aver perso più di un anno di tempo utile per ottenere la modifica dell’articolo 3 del Codice Doganale comunitario, Cappellacci si è accorto della storia e della legge sarda, ed in particolare dell’articolo 12 dello Statuto speciale:“Il regime doganale della Regione è di esclusiva competenza dello Stato”. E quindi ha chiamato a raccolta i comitati promotori e decine di sindaci da tutta l’isola a Roma mentre la regione Sicilia ci sorpassava con una mozione presentata dal presidente Crocetta e dal Movimento 5 Stelle che prevedeva l’attivazione in Sicilia delle zone franche urbane.

Cappellacci, i sindaci e diversi cittadini sardi si sono ritrovati a Roma il 24 giugno pensando che fosse la data ultima per raggiungere la zona franca integrale. Dopo aver fatto chiasso sotto Montecitorio e aver raggiunto un accordo per un incontro col primo Ministro Enrico Letta e col ministro dell’Economia e delle finanze Fabrizio Saccomanni, Cappellacci e la Randaccio si ritrovano davanti il viceministro delle finanze Luigi Casero. Un palese schiaffo quello del governo che decise di schierare una sorta di sottoposto senza alcun potere decisionale. Infatti il viceministro chiese ai sardi di reincontrarsi la settimana successiva per discutere le proposte. Per tutti – Cappellacci, Scifo, la Randaccio e i comitati Zona Franca – questa è una vittoria. Infatti il giorno dopo viene diffusa la falsa notizia che lo stato italiano abbia modificato l’articolo 10 dello Statuto sardo e che la Sardegna fosse stata messa sotto regime di zona franca.

Passa una settimana e Cappellacci si ritrova sempre Casero davanti. Il quale prima tracheggia, poi dà una spiacevole notizia: “lo stato italiano non ha alcuna intenzione di promuovere con i propri soldi la zona franca integrale della Sardegna. Al più la Sardegna può decidere a sue spese di istituire alcuni punti franchi dove lo riterrà opportuno”. La verità arriva come una sberla ancor più forte della settimana precedente. Per istituire una zona franca infatti occorrono soldi. Lo Stato italiano o non li ha o ritiene di doverli spendere in altro modo. La Regione non li ha: già nel 2010 avrebbe potuto rendere l’area portuale di Cagliari una zona franca. Il Presidente dell’area portuale sconsigliò Cappellacci poiché dalla cassa della Regione sarebbe dovuta uscire subito una cifra intorno ai 10 milioni di euro per attivare le prime recinzioni, e una successiva cifra di 21 milioni di euro per concludere i lavori.

Cappellacci barcolla e per qualche mese non parla più di zona franca. La Randaccio non molla ma si tiene a stento a galla, i comitati promotori sono sfiduciati. Provano una nuova proposta: istituire delle zone franche al consumo sperimentali. Il Comune di San Gavino Monreale si propone per primo. Ma questo, come i termini tecnici e la legge insegnano, si tratta di una zona franca urbana, simile a quella istituita dal governo Monti, su mozione del PD e dell’allora ministro per la coesione territoriale Fabrizio Barca, nel Sulcis. La decisione venne presa per aiutare il territorio più povero d’Italia a risollevarsi. Come si vede, con un intervento dello stato nazionale.

Arriva settembre e Cappellacci ritorna in campo facendo firmare l’ennesima delibera allegra sulla zona franca ai comuni sardi aderenti. Si parla di “un obiettivo che si sta perseguendo con successo”, di una Regione che ha introdotto la riduzione dell’Irap e ottenuto dal governo la zona franca per il Sulcis. In realtà la riduzione dell’Irap è stata una proposta dell’opposizione che la maggioranza non ha posto a bilancio mentre la zona franca per il Sulcis è stata una azione di esclusiva competenza dello stato italiano.

L’11 settembre Cappellacci rimedia una nuova brutta figura dall’Unione Europea. E attacca la Barracciu, rea di non aver perorato la causa della zona franca integrale. In realtà la Barracciu poco poteva davanti ad un codice impossibile da emendare e davanti all’assurda richiesta della Randaccio e di Cappellacci di inserire la Sardegna fuori dal territorio doganale dell’Unione europea  e nel contempo di renderla zona franca ai sensi degli articoli da 166 a 168 bis del codice doganale comunitario. Chiedere una cosa e l’altra, come fa il Presidente della Regione, non è possibile, perché non si può essere contemporaneamente dentro e fuori il territorio doganale dell’Unione.

Come uscire quindi da questa barzelletta? Cappellacci non ne uscirà, la userà alle prossime elezioni regionali e cercherà quindi di avvalersi dei membri dei comitati promotori per la zona franca integrale per imbastire la campagna elettorale. Una volta vinto, dimenticherà tutto quanto avvenuto durante questo anno colmo di figuracce. Se perderà, sarà costretto a veder attivati gli unici progetti possibili alla crescita della Sardegna. Quali?

Il primo è la creazione di una Agenzia delle Entrate Sarda, obiettivo dichiarato nel programma elettorale della candidata Michela Murgia, che permetterebbe il mantenimento del 70% dei tributi sardi da redistribuire poi nei vari settori del commercio, della sanità, della scuola e dei servizi. Questo progetto renderebbe ininfluente l’istituzione di zone franche al consumo e darebbe respiro alle casse regionali, da sempre dipendenti dagli umori del governo italiano.

L’altro è l’utilizzo della fiscalità di vantaggio come sta avvenendo nel Sulcis. L’articolo 116 della Costituzione Italiana riconosce alle Regioni a statuto speciale “forme e condizioni particolari di autonomia” rispetto alle Regioni a statuto ordinario e tale riconoscimento garantisce maggiori funzioni e maggiori risorse attraverso un favorevole meccanismo di compartecipazioni al gettito dei tributi erariali. Tale regime è emendabile solo previa intesa fra lo Stato e la singola Regione a statuto speciale.

Il Trentino, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta hanno già raggiunto diversi accordi con lo stato. I contenuti degli accordi sono diversi per ogni singola Regione secondo forme di “federalismo a statuto speciale” di cui si è fatto promotore non il legislatore, ma la Corte costituzionale. La sentenza 357/2010 ha riconosciuto a Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia ampie prerogative anche sui tributi erariali interamente devoluti o compartecipati, consentendo la modifica sia delle basi imponibili che delle aliquote consentendo fin da subito di mettere in cantiere importanti misure di fiscalità di vantaggio. La Sardegna invece non ha ancora avviato la negoziazione con lo stato.

Un’altra possibilità per la Sardegna è offerta dal Decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 titolato “fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno”, che consente alle Regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia di modificare le aliquote IRAP e prevedere esenzioni, detrazioni e deduzioni nei confronti di nuove iniziative produttive. Anche in questo caso la Sardegna non ha perseguito l’obiettivo rendendo di fatto inapplicata la possibilità di ridurre l’Irap.

Finisce così la lunga battaglia del Presidente Cappellacci, della Randaccio, di Scifo e dei comitati promotori per la zona franca integrale. Uno specchietto per centinaia di sardi che hanno preferito credere ad una banalità piuttosto che guardare in faccia la realtà. Uno specchietto che si è rivelato l’ennesima dimostrazione di amministrazioni – regionali e comunali – incapaci sotto ogni profilo politico, con una mancanza evidente di progettazione e di idee.

Questo fallimento non porta solo ad una sconfitta morale per il presidente sardo ma anche per tutti coloro che si sono avvicinati al tema della zona franca integrale solo per ottenere voti in vista di prossime elezioni – regionali e, soprattutto, comunali. Purtroppo, come si è visto, una casa senza fondamenta è destinata a crollare subito dinanzi alla realtà e a qualunque analisi realistica. Anche quando la Randaccio e diversi esponenti dei comitati promotori denunciano fantomatici “poteri alti” che tramano contro la Sardegna, dimenticando che l’Unione Europea è piuttosto grande per dover perdere tempo a pensare ad un tranello contro un puntino della sua cartina geografica.

13 Settembre 2013-Simone Spada

 

17 novembre 2023

Regime di zona franca in Sardegna

Se si vuole davvero capire quali sarebbero le reali ricadute derivanti dall'applicazione di un regime di zona franca in Sardegna, è necessario chiarire meglio il concetto andando oltre significato letterale del termine è incorporando alle classiche misure di carattere Doganale, rilevanti misure a favore delle imprese di incentivazione fiscale e di flessibilizzazione del costo del lavoro.  Questa particolare eccezione della Zona Franca necessita di passaggio istituzionali che nascono dalla contrattazione politica negoziale tra Regione, Stato e Unione Europea sulla base della normativa vigente in materia  e la richiesta di estensione del pacchetto di misure per abbattere l'insularità previste dal Trattato di Amsterdam anche alla Sardegna.

 Consideriamo la Zona Franca come uno strumento di libertà economica, dove l'insieme delle misure fiscali e doganali costituiscono il volano per rilanciare tutto il sistema produttivo regionale e valorizzare al meglio la centralità della Sardegna quale  nodo strategico di cerniera commerciale tra l'Unione europea e paesi extraeuropei che si affacciano sul vaccino del Mediterraneo.

 Al fine di ottenere una ottimazione delle ricadute economiche,  non si può prescindere dal fatto che tutto il territorio dell'isola sia sottoposta al regime della zona franca.  infatti, in questa visione di Libertà d'Impresa, si può prevedere come per ragioni di mercato e per la ricerca di elevati livelli di competitività internazionale, Le imprese orientate all'esportazione -  quelle cioè che utilmente potranno beneficiare delle esenzioni doganali - Preferiranno collocarsi in prossimità delle aree portuali e delle zone industriali,  dotate delle necessarie infrastrutture a ridosso di tali aree. Le altre imprese,  interessate all'ottenimento degli ulteriori benefici per ottenerli potranno effettuare effettuarsi in qualsiasi località della Sardegna,  determinando le cadute economiche e occupazionali diffuse in tutto il territorio.

Ciò premesso,  è facile comprendere che non potrà mai essere una norma giuridica di pianificazione economica ad Impedire l'estricarsi di queste naturali tendenze del mercato che vanno verso una concezione liberista,  in netta contrapposizione alla concezione statalista e centralista dello sviluppo economico pianificato.

Una lettura delle numerosissime zone Franche (oltre 400 già 10 anni fa) sparse del pianeta fa emergere una filosofia che mette in evidenza come questo strumento sia considerato,  a tutti gli effetti,  Teso a liberare le imprese e favorire la loro attività.  In questo ambito di Libertà d'Impresa vengono garantite agli operatori economici,  soprattutto nelle aree caratterizzate da processi di riconversione economica in quelle strutturalmente deboli Con evidenti ritardi nelle dinamiche di sviluppo,  condizioni ideali per attivare un allargamento della base produttiva,  apertura e mercati internazionali e aumento del livello occupativi.

Le imprese orientate all'esportazione potranno inoltre,  evitare una serie di costrizioni burocratiche e vincoli restrittivi di natura Doganale. Si tratta, in tutta evidenza, di un presupposto di natura liberista: l'attività economica può essere svolta con la massima efficienza ed il massimo grado di efficacia in assenza di interventi regionali e statali tesi ad impedire il libero dispiegarsi delle regole di mercato.

In conclusione: la zona franca può e deve costituire una conquista economica , culturale, sociale e politica di quel comune sentire che ci fa essere popolo e nazione, consapevoli che nulla ci verrà mai regalato e convinti che la Sardegna potrà essere redenta solo dai sardi…

13 novembre 2023

Beppe Grillo da Fabio Fazio a Che Tempo Che Fa: "Ho peggiorato l'Italia"

Nel suo intervento a "Che Tempo Che Fa” il comico e garante del Movimento 5 Stelle ripercorre le fasi politiche della creatura che fondò con Casaleggio. E recita parole di addio.

"Sono il peggiore? Sì, sono il peggiore, ho peggiorato questo Paese". È forse questa la frase più significativa del semi - monologo di Beppe Grillo, tornato ospite di un programma televisivo a quasi dieci anni di distanza dall'ultima apparizione. Il comico, intervistato da Fabio Fazio a "Che Tempo Che Fa" (che ieri ha battuto un nuovo record, portando su "Nove" 2,5 milioni di telespettatori), ha tirato le somme del suo percorso politico a modo suo, usando quella teatralità che è stata la sua fortuna ma anche il suo grande limite.

Quello che è andato in scena negli studi di Warner Bros. Discovery non è stato un semplice mea culpa e sarebbe fallace immaginare una sorta di stop and go. Beppe Grillo ha detto addio alla politica e lo ha fatto misurando le parole; parole solo apparentemente figlie di uno sfogo istintivo ma in realtà ponderate nella forma e nella sostanza: "Dall'ultima intervista rilasciata a Vespa nel 2014 - ha spiegato - abbiamo perso le elezioni, tutti quelli che avevo mandato a fare in c... sono al governo. Ho fondato il Movimento ma mi ero iscritto al Pd, ad Arzachena. Adesso sono anziano e confuso. Non posso condurre e portare a buon fine un movimento politico, non sono in grado. Prima c'era Casaleggio che era un manager. Ecco perché mi sono un po' ritirato".

Sia chiaro, il comico genovese, pur essendo ancora il "garante" del partito guidato da Giuseppe Conte, si era già fatto da parte da tempo: dal 2017 il suo blog non è più il canale ufficiale del Movimento 5 Stelle e i suoi interventi, negli anni, si sono sempre più diradati. Mancava il gesto definitivo, la parola "fine" dopo i titoli di coda. L'anziano comico-leader si è tolto definitivamente il peso e probabilmente lo ha tolto anche alla politica italiana, da lui pesantemente condizionata.

Lo stesso riferimento allo scomparso Gianroberto Casaleggio svela definitivamente quale fosse la catena di comando in quel Movimento 1.0, quello che disse no a un governo guidato da Pierluigi Bersani, per intenderci. "Era un'altra fase della nostra storia - ha detto recentamente l'ex Presidente della Camera, Roberto Fico, in un'intervista - la nostra linea era quella di non allearci con nessuno". Da allora sono passati dieci anni, ma sembra un secolo. La creatura politica fondata da Grillo e Casaleggio ha dato vita a due governi e ha appoggiato il "governissimo" a guida Mario Draghi; si è alleata con quasi tutti i partiti dell'emiciclo e il suo habitat naturale è quel Parlamento che doveva essere aperto "come una scatoletta di tonno".

I due leader che si sono alternati e hanno scandito tempi e modi della metamorfosi del Movimento 5 Stelle sono stati Luigi Di Maio, passato in brevissimo tempo da astro nascente a stella cadente della politica italiana e Giuseppe Conte, uomo - establishment che lo ha definitivamente "istituzionalizzato". Anche su di loro, le parole del comico non sono state casuali: "Giggino la cartelletta - ha detto riferendosi a Di Maio - era il politico più preparato, ma non pensavamo si facesse prendere dal potere di organizzare le persone. Poi ci ha pugnalato". Ancor più tranchant, se vogliamo, il giudizio sull'attuale leader: "Arrivava dall'università, era un avvocato. Dovevamo scegliere qualcuno della società civile, lo conobbi e dissi: 'E' un bell'uomo, laureato, parla inglese'. Poi quando parlava si capiva poco, quindi era perfetto per la politica". La "versione in prosa" delle parole del comico è abbastanza semplice: nel Movimento 1.0 un capo politico come Giuseppe Conte sarebbe stato impensabile, così come sarebbe impensabile oggi un Movimento 3.0 con Beppe Grillo a fare da frontman.