12 luglio 2023

La domanda: dove andrà questa Sardegna?

Avverto un senso di stanchezza, di deja vu, di parole che vengono ripetute al vento, di bilanciamento delle retoriche pro Sardegna o anti Sardegna. Avverto l’assenza della politica e delle istituzioni e anche l’indignazione dei giovani. La retorica dell’essere prevale sul fare (un fare eticamente orientato) e tutto resta come prima o addirittura ci riporta al passato. Si predica, si inveisce, ci si addolora, ci si autoflagella, ci si colpevolizza, si apre, sempre retoricamente, alla fiammella e alla speranza (così per non passare per pessimisti, negativi e autodistruttivi) e poi di nuovo al nastro di partenza, in attesa della scoperta di un nuovo viaggiatore o di un evento drammatico o criminale da commentare. L’assuefazione prevale. E tutto viene gabbato come normale. La Sardegna dovrebbe essere in grado di raccontarsi e di fare da sola. D’ora in avanti racconterò, come saprò e come potrò, la mia Sardegna, la Sardegna che mi pare, la sua “normalità”, il suo essere mondo. Tutto il resto mi sembra chiacchiera, favola, mitologia.

La Sardegna si nasconde, si camuffa, non appare e quando appare lo fa con il suo volto più angusto, buio, sotterraneo, ambiguo. La Sardegna è diventata straniera a sé stessa e i sardi non sanno più, se mai lo hanno saputo, chi sono.

La fuga è tornata attuale, oggi chi fugge lo fa con rabbia e con irritazione, senza desiderio di tornare.

A fuggire sono anche molti che non partono, molti rimasti, ormai stranieri in patria, solitari custodi di rovine e di memorie, cavalieri incompresi e inascoltati. La fuga più dolente è quella di chi aveva fatto la scelta di restare e adesso si sente impotente, deluso, si domanda, “che ci faccio qui”.

La Sardegna non vuole raccontarsi, ritrovarsi, e si consegna agli altri, allo sguardo esterno, amico o ostile. Sempre dipendente. Così è facile trovare alibi alla sua incapacità di elaborare immagini positive, di costruire speranze.

Non va bene niente, ma la colpa è sempre degli altri.

Siamo (adopero con difficoltà questo noi) sempre in attesa di quello che dicono gli altri: per applaudire, per polemizzare, per piangere, per riconoscerci o per negarci.

Da decenni ormai, vengano votati ed eletti i più incapaci, i traffichini, gli inetti, gli incompetenti, gli appartenenti alla zona grigia.

La zona grigia? Sarei tentato di dire che non esiste una zona grigia, perché qui tutto è zona nera e perché chi non partecipa, vede, conosce, sa. L’ipocrisia, l’inganno, il doppio gioco, il trasformismo sono pratiche condivise, titoli preferenziali.

Lacrime struggenti sulle bellezze della nostra terra e la pervicace diffusa tendenza a distruggerla. Terra bella e mare azzurro, coste incontaminate, boschi verdi, fresche acque.

Povera, bella terra mia, violentata e rovinata da chi non fa che esaltare le tue bellezze e intanto pensa a profitti e ad arricchimenti facili e veloci.

Piangono le coste della Sardegna, i monti, piangono i paesi presepi abbandonati, fuggiti, scansati dai suoi abitanti in cerca di fortuna, quando restare significava povertà e miseria e ad esso ridotti a macerie di progetti e di piani di sviluppo ad opera di famelici politicanti ed ingegneri, architetti e geometri.

Non è che i sardi siano meno buoni o meno onesti degli altri: vedo bontà e generosità vedo nelle persone che conosco, quanta forza e quanta sopportazione. Questi aspetti migliori dei sardi vengono fagocitati da draghi, lupi famelici, belve ferine.

Siamo o non siamo la terra delle ricchezze e delle bellezze? Perché la nostra pietas e la nostra melanconia, le nostre solidarietà e le nostre accoglienze, non diventano desiderio di cambiare il presente, di vivere nel presente? Perché invece di invocare le responsabilità degli uomini del passato tolleriamo, accettiamo, votiamo, sosteniamo i volti impresentabili di chi governa, comanda, decide?

Ma adesso è tardi, davvero. È buio. Bisogna, davvero, deciderci. Non ci importano le accuse che conosciamo. Non ci importa sentirci dire, come in un disco stanco, che siamo qualunquisti, che non indichiamo soluzioni, che non celebriamo la Sardegna normale.

Ti voglio troppo bene, Sardegna per poter stare zitto. Ti ho troppo amata per non dirti come ti vedo e come sei. Per non sentirmi tradito. Per non dover invitare a un’indignazione salvifica, a una ribellione civile, a un’inversione di tendenza. Per non dire che mi chiamo fuori da questo “noi sardi” per sentirmi parte di un “noi del mondo” come quei giovani che non possono essere traditi neanche da chi si sente tradito.

C’è qualcuno, qui ed ora, pronto ad indignarsi, magari senza dire che l’indignazione non basta?

Ci salverà un nuovo Risorgimento? Allo stato attuale sono intollerabili i silenzi assordanti, le rassegnazioni interessate, le connivenze e le complicità per pigrizia, l’incapacità dei tanti bravi e onesti sardi di mettersi assieme, di fare una rete, una nuova “setta” aperta, una lobby generosa che coniughi indignazione e progetto, speranza, nostalgia ed utopia, memoria ed oblio, tolleranza ed indulgenza, accoglienza del sé e accoglienza degli altri. Sbrighiamoci, è tardi, o diciamoci, davvero, per sempre addio.

 

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