26 giugno 2023

L'incoerenza dei politici...

Uno degli atteggiamenti più imperdonabili nell'attività politica è l'incoerenza: dire una cosa e farne un'altra è un esercizio di travestimento politico che denigra chi lo fa, indipendentemente dal fatto che l'esito della farsa sia favorevole. Oggi, quando l'idea che la politica sia un'attività disastrosa e che tutti i politici siano ugualmente inetti e corrotti penetra profondamente nell'opinione pubblica, specialmente quella dei giovani, l'incoerenza è forse la prova nove che quell'opinione è vera.

La corruzione è il fatto di servirsi della politica a proprio vantaggio, sia per arricchirsi ingiustamente, giungendo a quello che è volgarmente inteso come furto, sia per alterare l'ordine e la giustizia delle cose, recando danno agli interessi generali e nuocendo alle persone.

E in questi parametri sta l'incoerenza. Com'è facile dire qualcosa su ciò che non si sa e com'è facile cercare l'interesse personale negli affari pubblici. Basta come prova di incoerenza, tra le tante che stanno avvenendo nella nostra vita politica, quella che sta dimostrando Conte e il suo movimento.

La conclusione è chiara, perché la politica sia un'attività valorizzata dai cittadini, i politici che la esercitano devono essere, prima di tutto, coerenti. E ciò che ho detto qui è valido per tutti - indipendentemente dalla loro ideologia - che vogliono veramente servire la loro patria e sono disposti a sacrificarsi per il bene dell'interesse generale. Se non lo sono, dovrebbero restare a casa.

Giornalisti disonesti...


I giornalisti sanno bene dove porre l'asticella per squalificare un politico: bugie ripetute, dolo deliberato, disonestà economica, servizio a interessi estranei ai cittadini che pretende di rappresentare... Ma dov'è l'asticella per squalificare un politico? Indegno del mestiere che pretende di esercitare?

Nella stragrande maggioranza dei casi, i giornalisti che sanno parlare così bene dei politici restano muti come morti quando si tratta di parlare in pubblico di giornalisti disonesti, che deliberatamente mentono e ingannano, che servono cinicamente interessi diversi da quelli dei loro lettori. Seguaci. Perché? Molte volte, per paura che la denuncia pubblica di questi personaggi sia considerata o favorisca un attacco alla libertà di espressione. Per paura che queste denunce vengano sfruttate per limitare la libertà di espressione e, di conseguenza, per limitare la già indebolita democrazia. Forse anche per semplice paura di non potersi difendere dalle loro bugie e dai loro attacchi. La realtà è che è questo silenzio che danneggia la libertà di espressione e indebolisce la democrazia. Chi tace partecipa al gioco e alla trappola.

Non si tratta più solo di denunciare gli interessi e le vicende delle società giornalistiche e dei loro dirigenti, incapaci di far fronte alle pressioni delle banche o delle società con cui indebitano. Questo è vero e ha un effetto devastante sulla credibilità di quei media. Ma è anche vero che i giornalisti non sono dipendenti di una merceria, e che quando iniziano il mestiere assumono una serie di impegni professionali ed etici. E che ci sono infinitamente più giornalisti disonesti, venali e corrotti dei politici che denunciano.

Non si tratta di diffondere il sospetto su tutti i professionisti. Sono centinaia, migliaia i giornalisti italiani che ogni giorno fanno il loro lavoro, difendendo le regole del mestiere. Giornalisti, cronisti e semplici informatori, che indagano sui fatti e li denunciano, meglio o peggio, ma con la massima onestà possibile. Editorialisti che cercano di argomentare le proprie opinioni con dati e ragionamenti e che non fanno appello alle passioni. Caporedattori e registi che cercano di migliorare la qualità dei loro media e l'eccellenza nella narrazione. Non meritano di essere confusi o mescolati con quei giornalisti di genere diverso, alcuni dei quali varcano il confine del fanatismo e diventano dipendenti stipendiati di partiti o aziende legate a quei partiti.

Il problema è che, a volte, giornalisti che hanno ampiamente accreditato la loro professionalità accettano di mescolarsi in quei programmi o in quei media con giornalisti che sanno perfettamente di essere corrotti. Lo fanno sapendo che con la loro sola presenza e il loro tentativo di migliorare il dibattito legittimano il comprato e l'indecente.

È vero che da tempo si denuncia la deriva del giornalismo verso lo spettacolo e il sensazionalismo, ma la questione non si pone più in questi termini. Non è che i telegiornali siano mescolati a balli o interviste a celebrità. La verità è che alcuni di questi programmi di spettacolo hanno dato vita a spazi magnifici pieni di informazioni vere e sostanziose. Ma quei programmi o spazi sono già stati completamente superati da quest'altro tipo di spettacolo manipolativo e bugiardo. Alcuni giornalisti italiani hanno portato il dibattito politico al livello di Donald Trump, e va riconosciuto che le dichiarazioni e gli atteggiamenti di Trump stanno causando un vero e proprio scandalo negli Stati Uniti, mentre in Italia un dibattito politico deliberatamente degradato da giornalisti infami è considerato quasi un scherzo,una grazia. Non è. Prendere questo tipo di giornalismo come uno scherzo è un pericolo e una vergogna per la democrazia.


21 giugno 2023

Gli orizzonti della conoscenza...

C’è un proverbio che dice: "L'uomo è l'unico animale che inciampa due volte nella stessa pietra". Abbiamo passato secoli a documentare e raccogliere informazioni in modo più o meno empirico (a seconda del momento storico) e ad ampliare gli orizzonti della conoscenza. Ogni volta ne sappiamo di più, e siamo più capaci di comprendere fenomeni che prima solo la religione, attraverso la fede, poteva spiegare. Ma la religione ha sempre meno da spiegarci, da quando la scienza ha saputo farsi strada e offrire una spiegazione razionale, attraverso argomentazioni e seguendo un metodo empirico, di fenomeni incomprensibili nel passato.

Oggi, nell'era della conoscenza, l'accesso alle informazioni è gratuito per tutti. Alcuni vi accedono, cercando un argomento specifico, lo leggono e ci credono, ma non contrastano l'informazione né la mettono in dubbio su basi fondate. Fino a che punto una fonte è attendibile? Il libero accesso alla creazione di contenuti in rete consente a molti di pubblicare contenuti falsi, magari con le migliori intenzioni perché non dispongono delle informazioni adeguate. Ma forse alcuni vogliono inserire false informazioni per creare tensione nell'ambiente per determinati scopi. Il problema, quindi, non è il diritto all'informazione, poiché limitarlo o vietare le pagine che pubblicano "bufale" equivarrebbe quasi a una censura orwelliana in una società dell'occhio che tutto vede. Il problema è come noi individui gestiamo le informazioni una volta acquisite.

Per questo, vivendo nella società della conoscenza, è necessario formare persone capaci di distinguere tra informazioni vere e false, nonché capaci di creare nuovi modelli e mettere in discussione quelli presenti. Abbiamo nel palmo delle nostre mani tutta la conoscenza che vogliamo, ma tuttavia pochi sono quelli che mettono davvero in discussione questa conoscenza. Alcuni la credono come se fosse la bibbia, e non passano il tempo ad analizzare ciò che leggono, tantomeno la crescita personale, perché dopo una dura giornata di lavoro coltivare la mente è per molti un compito arduo e difficile, e per l'evidente stanchezza derivante dalla il ritmo della vita non possono farlo, quindi bisognerebbe trovare un metodo o un sistema per migliorare la qualità della vita delle persone e offrire loro tempo per il loro sviluppo personale. Qualcuno ci ha pensato? Altri semplicemente non vogliono e cercano opzioni di distrazione.

La società ci offre distrazioni che ci consentono di disconnetterci dal nostro lavoro facilmente e senza sforzo. Ci mostrano serie, film e persino reality show in cui non c'è altro scopo che distrarre. Ma d'altra parte, la conoscenza che rende critici e dà la possibilità di interrogarsi e chiedersi perché le cose stanno così, è sempre meno presente nella nostra società, anche se continua ad esistere. Non è di moda mettere in discussione le cose, anzi: quello che è di moda è seguire lo stile del resto del gruppo sociale, senza metterlo in discussione. Ciò che dà più prestigio sociale oggi è seguire le mode con il maggior "stile" possibile, e non leggere i grandi classici della Filosofia che hanno posto le basi della nostra società, o le nuove analisi economiche proposte da Thomas Piketty, che possono rivoluzionare la società e renderlo più egualitario, per esempio. Ma le mode attuali si basano sul fare atti totalmente banali,di difficoltà cognitiva nulla e alcuni addirittura contro l'istinto di sopravvivenza (assente in alcuni) o contro la Teoria dell'evoluzione di Charles Darwin: vedi le famose sfide di Instagram o TikTok . I tempi liquidi in cui viviamo ci fanno cercare il facile prima del difficile, il semplice prima del complesso. Non intendiamo ottenere un grande piacere a medio termine se posso ottenere due piccoli piaceri a breve termine, o anche subito. Ma in che modo questi piaceri ci riempiono a breve termine se non in modo superfluo ed effimero?

Mettere in discussione le convinzioni sociali, così come lo stile di vita attuale è qualcosa che non si fa spesso. È vero che una parte della società lo fa, ma è minuscola e poco conosciuta per questo. C'è da interrogarselo, perché la nostra casa dipende in parte da esso. Lo stile di vita consumistico che conduciamo non può che portarci in un posto, e questo è evidente, tenendo conto che da anni sfruttiamo la Terra e le facciamo produrre artificialmente molto più di quanto possa produrre naturalmente. Ma d'altra parte anche gli standard della nostra società non sono messi in discussione. Perché? Dobbiamo imparare a mettere in discussione le cose ed essere critici con noi stessi. Il sistema di controllo a cui siamo sottoposti ha molte falle che possono essere migliorate,poiché una parte della società sfugge a questo controllo a causa del suo status sociale. Ma la mancanza di volontà politica, dovuta agli interessi economici di chi detiene il potere, fa sì che non migliori. Ad esempio, molti sanno che ogni giorno in Africa muoiono di fame migliaia di persone, ma nessuno fa niente! Non smettono invece di emergere casi di corruzione o di arricchimento attraverso attività illecite, benefici che vanno nei paradisi fiscali. Qualcuno si è indignato? Pochi, ma niente di più. Sembra che a molti non importi o lo considerino normale. Niente è più lontano dalla realtà! L'individualismo derivante da questa società elitaria in cui viviamo ci fa preoccupare solo di noi stessi, senza tener conto delle altre persone e del resto della società:"Siccome non mi hanno derubato direttamente, non mi hanno derubato" affinché con questi soldi rubati non si possano destinare servizi pubblici essenziali e il miglioramento di quelli già esistenti. Che pochi rubino dal denaro con cui si pagano le tasse, cioè denaro da tutti i cittadini, dovrebbe essere il reato più punibile tra i reati contro il patrimonio. La disuguaglianza è un dato tangibile della nostra società che molti non vogliono vedere, forse perché non si sentono male o perché considerano sfortunato chi sta peggio e invidiano chi sta meglio. Ma nessuno mette in dubbio che la disuguaglianza esista. Non è possibile un mondo senza di lei? Gran parte della disuguaglianza è il risultato dei vecchi (e meno vecchi) imperialismi e delle guerre che hanno devastato tutto ciò che era diverso dal loro modo di pensare o di fare,tutto per il potere Il mondo arabo, ad esempio, ha avuto grandi scienziati e progressi come società in passato, ed era una società molto avanzata. Ma ora è molto impoverito a causa delle guerre e della mancanza di risorse, molte delle quali prese da altri stati che se ne nutrono.

Attraverso il consumo siamo stati addomesticati per poterci distrarre e avere beni che ci offrono status sociale, oltre che soddisfazione personale per aver acquisito una "preda". Cacciamo e cerchiamo di ottenere il miglior gioco possibile, e invidiamo coloro che hanno una "caccia" migliore. Quindi, cerchiamo di migliorare il nostro pezzo in modo che sia migliore e possa essere l'invidia degli altri.

D'altra parte, il consumismo informazionale in alcuni casi non fa altro che confrontarsi con noi come individui per eluderci dai problemi reali che ci riguardano come società nel suo insieme. In questo modo il potere può continuare a governare a proprio vantaggio, mentre i reali bisogni del popolo scompaiono sotto pretese banali e superficiali. Molti criticano il fatto che il presidente del governo non abbia indossato una cravatta nera in onore delle vittime del Covid-19, e gli è stato dato molto clamore. Poco invece si parla delle disastrose condizioni di lavoro di tutti i professionisti della sanità pubblica, con stipendi miseri. Poco si parla dei tagli alla sanità pubblica, pagata da tutti e per tutti, e che ha sempre meno servizi e peggio. Naturalmente, alle 20:00 tutti applaudono e ringraziano, il che è molto positivo come società,e dare la colpa al governo per quanto fa male mentre parlo con Juan quando esco a fare una passeggiata di 45 minuti con il cane ogni mattina, prima di andare in vacanza nella casa al mare con la famiglia in piena quarantena, invece di collaborare e seguire gli slogan stabiliti, e non cercare scontri e tensioni inutili nella società quando abbiamo un nemico comune ancora da sconfiggere.

Inciamperemo di nuovo con la stessa pietra? Mi dà sì. Non abbiamo imparato niente per anni. Approfittiamo di questi giorni di reclusione e iniziamo ad essere critici, ma non per cercare tensione, ma per migliorare la società per tutti e renderla più equa. E questo si può fare acquisendo conoscenza, non dai programmi televisivi, ma chiedendo perché tutto è, e cercando una spiegazione con argomentazioni verificate e veritiere, rivolgendosi a fonti di informazione attendibili e veritiere. Mettere in discussione tutto, per poi trovare una soluzione alle carenze che riscontriamo, è il modo migliore per andare avanti come società. 

29 maggio 2023

Quanto tempo ha il tempo!

Il miglior documentario sul tempo che abbia mai visto è su Netflix dal titolo “Quanto tempo ha il tempo” con la partecipazione del sociologo Domenico De Masi. .

“Quanto tempo ha il tempo” parla del nostro rapporto con il tempo e, di conseguenza, del nostro rapporto con noi stessi. Come ogni buon film, non ti presenta conclusioni: si fida della tua capacità di raggiungerle da solo. E poi forse concluderai che tutta la tua vita è solo una questione di tempo.

Primo, vuoi un mondo migliore per te stesso. Dopo un po' di tempo, vuoi essere una persona migliore per il mondo. Primo, vuoi dimostrare le cose agli altri. Dopo un po', vuoi dimostrare le cose a te stesso. Dopo un po', non hai più voglia di provare niente, solo allora assapori la vera libertà.

In primo luogo, senti che tutti gli amori sono l'amore della tua vita. Dopo un po', capisci che il vero amore non si manifesta così facilmente. Dopo un po' di tempo, alla fine disimpara ad amare. Innanzitutto, hai molte certezze. Dopo un po' di tempo, sei pieno di dubbi. Dopo un po', ci sono cose che davvero non vuoi sapere.

Per prima cosa, custodisci attentamente i tuoi ricordi. Dopo un po' di tempo, la tua memoria diventa più selettiva. Dopo un po', senti un bisogno improvviso e inspiegabile di imparare a dimenticare: la vita, pensi, consiste fondamentalmente nell'oblio.

Primo, ti apprezzi troppo. Dopo un po', ti sminuisci troppo. Dopo un po' di tempo, ti rendi conto della tua insignificanza e capisci che, in un universo infinito, non importa come verrai ricordato e ancor meno conta il tuo giudizio personale: noi siamo polvere di stelle.

Primo, sopravvaluti la vita. Dopo un po' la disprezzi. Dopo un po' di tempo, ti diverti.

Innanzitutto, vuoi che il tempo passi. Dopo un po' di tempo, vuoi solo avere più tempo. Dopo un po' di tempo, finalmente capisci che il tempo è una bugia.

16 mesi dall'invasione Russa in Ucraina

Sono passati 16 mesi da quando Putin ha deciso di invadere l'Ucraina . Quella che doveva essere una rapida occupazione è diventato il più grande conflitto armato in Europa dalla seconda guerra mondiale, e uno degli eventi che segneranno la storia geopolitica del XXI secolo. Tuttavia, si è rivelata una guerra "atipica" dal punto di vista strategico.

Il piano iniziale di Putin prevedeva una 'rapida' occupazione dell'Ucraina, il cui obiettivo era prendere il controllo di Kiev in pochi giorni e imporre le proprie regole al governo ucraino. 

La guerra, ad oggi, ha provocato la morte di oltre 200.000 soldati russi, un'enorme perdita di equipaggiamento militare e l'economia europea, lontana dalla recessione e dall'infausto soffocamento che Mosca aveva promesso a causa dell'aumento vertiginoso dei prezzi del gas e del petrolio.

Nel frattempo, la guerra ha eroso il potere relativo della Russia e ha ingrandito quello dei suoi rivali in modi mai visti prima del conflitto.

Putin ha lanciato il conflitto con un'intenzione di restaurazione imperiale nello specchio dell'opera di Pietro il Grande, paradossalmente europeista. Non si trattava solo di rafforzare la sicurezza della Federazione, come sostengono coloro che spiegano l'azione russa come una reazione all'audacia della Nato.

Questa invasione ha cercato più chiaramente di ricostruire le sfere di influenza russe , un concetto geopolitico che sembrava bloccato negli archivi dalla fine della Guerra Fredda.

Putin ha rotto quella struttura e si è rinchiuso nell'oscurità personalistica di un regime modellato su quello di Stalin, del soffocamento dell'informazione, della persecuzione di ogni idea politica o culturale alternativa, e di una deviazione messianica nel suo sistema decisionale .


17 maggio 2023

ELEZIONI: LA SINISTRA SI AGGRAPPA AL “PARADIGMA BRIANZOLO”

Per chi non se ne fosse accorto domenica e lunedì scorsi si sono recati alle urne circa 4,5milioni di cittadini per rinnovare le amministrazioni di 595 comuni delle regioni a statuto ordinario, mentre in 165 comuni delle regioni a Statuto speciale si andrà alle urne i prossimi 28 e 29 maggio. Tra i comuni al voto anche 13 capoluoghi di provincia. I risultati del primo turno, nelle città-capoluogo, non hanno riservato particolari sorprese. Segno che sulle elezioni comunali, dove maggiormente incide il rapporto di prossimità eletto-elettore, la scossa all’azione di governo non c’è stata. Né in positivo, né in negativo. Anche l’affluenza è stata tutto sommato soddisfacente visto che rispetto al precedente dato del 2018, che fissava la partecipazione al 61,22 per cento, in quest’ultima tornata si è recato alle urne il 59,03 per cento degli aventi diritto. L’aver spalmato il voto su due giorni è servito.

All’esito del primo turno sono stati assegnati al centrodestra 4 capoluoghi (Imperia, Latina, Sondrio, Treviso) e due al centrosinistra (Brescia, Teramo). Occorrerà attendere il secondo turno tra due settimane per sapere chi alla fine si sarà complessivamente aggiudicato questa tornata elettorale. Sia chiaro: si tratta di curiosità accademica, visto che sul terreno della politica nazionale il risultato non modificherà i rapporti di forza esistenti tra i partiti. Non inciderà sulla linea del Governo né potrà essere utilizzato dalle opposizioni per asserire il supposto fallimento della maggioranza di centrodestra.

Comunque, a Imperia il vecchio ras forzista, Claudio Scajola, l’ha spuntata alla grande anche questa volta. Segno che lui e Imperia sono una cosa sola. C’è stato poi un ritorno a casa. La “destrissima” Latina, la mussoliniana Littoria, dopo essersi concessa in tempi recenti una scappatella a sinistra, è tornata all’antico. La candidata sindaco del centrodestra, Matilde Celentano, ha ottenuto il 70,68 per cento. Una percentuale di consenso quasi bulgara che la dice lunga sull’aria che tira dalle parti dell’Agro pontino. A fare da contraltare, a vantaggio del centrosinistra, c’è il voto di Brescia. Lì, Laura Castelletti, vicesindaco dell’uscente Giunta di centrosinistra, ha conseguito il 54,84 per cento dei consensi. Di certo, è stata una poderosa sportellata al volto della Lega che aveva scommesso su un possibile ribaltamento della scena. Che poi a Sondrio abbia vinto il centrodestra non è una notizia. Al più, la notizia ci sarebbe stata a esito elettorale invertito. Il vero problema di questo tipo di elezioni è nella distorsione patologica del secondo turno, dove il ballottaggio si è trasformato in un mezzo di frustrazione del principio democratico, dacché un numero ristretto di votanti finisce per sovvertire la volontà espressa da un maggior numero di cittadini al primo turno. In genere, tale anomalia ha avvantaggiato i candidati del centrosinistra i quali, potendo contare su un mondo progressista capillarmente più strutturato sui territori, sono in grado di assicurarsi al secondo turno la partecipazione di una massa congrua di elettori. Al contrario del centrodestra, il quale notoriamente conta sul voto d’opinione di un pubblico assolutamente svincolato da logiche di appartenenza a partiti o ai corpi intermedi della società. È questa la ragione per la quale, nei 7 ballottaggi da affrontare, il centrodestra, pur essendo in vantaggio in 6 di essi (Ancona, Brindisi, Massa, Pisa, Siena, Terni) – solo a Vincenza il candidato del centrosinistra è avanti – corre il rischio di perdere ovunque. Lo si può definire “paradigma brianzolo”, dalla dinamica elettorale che, lo scorso anno, ha portato il candidato del centrodestra alle Comunali di Monza ad arrivare a un soffio dalla maggioranza assoluta al primo turno e perdere malamente al ballottaggio.

Ma raccontiamo meglio ciò che accadde nel capoluogo della Brianza e perché potrebbe accadere nuovamente da altre parti. Il 16 giugno del 2022, la vittoria del candidato di centrodestra a Monza era data per scontata. Nella terra d’elezione del fenomeno Forza Italia, arricchita da una forte presenza della Lega, Silvio Berlusconi aveva appena compiuto il miracolo di portare la squadra di calcio cittadina ai fasti della massima serie per la prima volta nella storia centenaria del club sportivo. La popolazione festante avrebbe dovuto essergli grata. E lo fu. Ma solo a metà. Al primo turno, il forzista Dario Allevi, sindaco uscente, oggi convertito al “melonismo” di Fratelli d’Italia, ottenne 20.891 voti, pari al 47,12 per cento, contro lo sfidante di centrosinistra, Paolo Pilotto, fermo a 17.767 preferenze (40,08%). Sembrava fatta per Allevi. Invece, no. Accade che al ballottaggio, in luogo del 46,56 per cento dei votanti al primo turno si presenta al secondo turno solo il 36,82 per cento. Pilotto con 18.307 voti – 862 in più di Allevi che si ferma a 17.445 preferenze – vince. È un classico: 36.111 votanti hanno ribaltato la volontà di 45.664 cittadini di cui una parte andati alle urne al primo turno e in gita ai laghi al secondo turno. Si obietterà: se questa è la regola, il torto è degli assenti. Vero, ma se questa è la regola la si può cambiare. Dove sta scritto che il doppio turno debba essere un sistema di voto sacro e inviolabile? Lo sarà per la sinistra che ne ha sempre tratto enorme beneficio. Ciò spiega il perché un’Italia maggioritariamente di destra si ritrovi puntualmente a essere governata sui territori da una marea di sindaci di sinistra. Accadrebbe lo stesso a livello regionale se anche lì vi fosse il sistema del doppio turno. Per fortuna non c’è. Ed è per questo che abbiamo 15 governatori di centrodestra e non il contrario. È un dato antropologico, prepolitico: l’elettore di centrodestra è refrattario all’idea di doversi recare due volte al seggio per esprimersi sulla medesima sfida elettorale. Gli tagliamo la testa? Piuttosto, la politica gli venga incontro. Se questo centrodestra non ha il coraggio di cassare il ballottaggio per le elezioni comunali, almeno provi a temperarlo. Basterebbe modificare una frase del punto 4, articolo 72 (Elezione del sindaco nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti) del Capo III del Testo Unico sull’ordinamento degli enti locali – D.Lgs.267 del 2000. Al posto di “È proclamato eletto sindaco il candidato alla carica che ottiene la maggioranza assoluta dei voti validi” scrivere: “È proclamato eletto sindaco il candidato alla carica che ottiene il 40,01 per cento dei voti validi”. Sarebbe un’affermazione di giustizia democratica, oltre che di buonsenso, introdurre una soglia superata la quale il ballottaggio non sia necessario. Potrebbe rimanere per i casi in cui vi fosse una tale dispersione di voti tra i candidati del primo turno da non dare ad alcuno un pieno mandato di rappresentanza del corpo elettorale. Per una manciata di voti non si può annullare la volontà della maggioranza dei votanti e assegnare il giudizio finale a un più ristretto numero di elettori.

Si prenda l’odierno caso di Pisa. Il candidato del centrodestra, Michele Conti, ha ottenuto il 46,96 per cento dei voti (20.091). Davvero un’inezia dalla maggioranza assoluta, tanto che, a nostro giudizio, gli converrebbe chiedere un riconteggio perché è probabile che trovi negli errori commessi in sede di scrutinio i numeri mancanti per l’elezione al primo turno. Il suo sfidante, Paolo Martinelli della coalizione di sinistra “Tutti insieme appassionatamente – Cinque Stelle compresi”, ha ricevuto 16.534 preferenze (41,12%). Dunque, tra i due vi è stato uno scarto di 3.557 voti, che è significativo se si considera che i votanti sono stati il 56,43 per cento degli aventi diritto. Sebbene legittimo, non rispecchierebbe la volontà democratica un voto di ballottaggio segnato da una scarsa partecipazione che tuttavia ribaltasse il verdetto del primo turno.

Siamo ben consapevoli del fatto che, se il centrodestra provasse a ritoccare il sistema elettorale delle Comunali, la sinistra insorgerebbe gridando al golpe. Allora la domanda è: quanto questo centrodestra crede nella realizzazione della “democrazia decidente”? Urli pure quanto vuole la sinistra, ma è ora di piantarla con le partite elettorali falsate dai bizantinismi dei doppi turni. Non siamo in Champions League, dove c’è l’andata e il ritorno. Una sola tornata elettorale è sufficiente a garantire il pieno rispetto della sovranità popolare. Vince chi prende un voto in più sopra una certa soglia. E amen.

 

LA STUPIDITÀ DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE


Si dice “Intelligenza artificiale” e dovrebbe dirsi “stupidità artificiale”. Infatti, ben oltre l’enfasi retorica con cui molti mezzi di informazione inneggiano alle macchine “intelligenti” che ci renderanno facile la vita e al diffondersi della digitalizzazione quale strumento di connessione universale, bisogna intendere come, di intelligenza, nei computer – per quanto sofisticati e potenti – non vi sia traccia alcuna.

Va da sé che tali macchine, in grado di memorizzare una quantità pressocché sterminata di dati di ogni genere, possono anche essere adoperate per ragioni dominative, come per esempio violare la riservatezza di ciascuno di noi, oggi fatalmente messa in grave pericolo proprio dall’uso spregiudicato delle banche dati.

Ma in questa sede, intendo chiarire perché a regnare sovranamente in queste macchine sia la più genuina stupidità.

Possiamo in prima battuta rilevare – usando termini kantiani – che mentre ogni computer usa il giudizio determinante, nessuno di essi potrà mai accedere al giudizio riflettente.

Nella prima forma di conoscenza, si tratta di partire da concetti generali per giungere poi alla conoscenza del particolare, secondo il procedere tipico del computer al quale vengono forniti dai programmatori regole generali in grande quantità da adattare ai casi particolari.

È questa la modalità propria del sapere delle scienze empiriche, campo di conoscenza dell’intelletto. Si pensi alla medicina, la cui problematiche diagnostiche possono essere efficacemente affrontate e risolte da un computer al quale siano stati preventivamente forniti i concetti generali della patologia medica e chirurgica, da adattare al caso concreto da esaminare. Ovviamente, lascio fra parentesi il problema di enorme portata relativo al ruolo personale che il medico è chiamato a svolgere, dal momento che la macchina ne depotenzia la vocazione diagnostica da praticare attraverso l’esame diretto del paziente, senza alcuna mediazione preliminare: anche perché il vero problema del medico – oggi dimenticato – è prendersi cura del malato e non debellare la malattia.

Nella seconda forma di conoscenza – quella del giudizio riflettente – è il particolare che invece viene messo a disposizione e da questo occorre risalire all’universale, secondo un movimento opposto al precedente.

È questa la modalità propria del sapere delle scienze non empiriche, ma teoretiche (estetica, etica, diritto, poetica ecc.), campo di conoscenza della ragione.

Si pensi alla amministrazione della giustizia, ove l’utilizzo del computer appare impossibile, dal momento che è impossibile fornirgli tutti i dati concreti immaginabili, tenendo conto che non si può escludere si realizzi di fatto anche il “non immaginabile”. Per questo, nessun computer potrà mai sostituirsi al giudice: perché nel primo sono state immesse soltanto le regole, quelle di cui sono fatti i codici, ma non le eccezioni, costitutive invece della coscienza del secondo. Il computer potrà riempirsi – in misura ben maggiore del giudice – di milioni di regole, ma impazzirà di fronte ad una sola, imprevedibile eccezione. E d’altra parte, le eccezioni non sono prevedibili, altrimenti non sarebbero eccezioni, e per questo non potranno mai essere tutte immesse in un computer. Inoltre, nessun computer potrà mai comprendere e spiegare perché il “Sole nascente” di Monet sia bello o perché un verso di Rilke ci faccia capire della nostra esistenza meglio e di più di un trattato di psicologia.

In altre parole, il computer possiede, per dir così, attraverso un algoritmo, la grammatica della frase – cioè la sequenza logica dei termini che la costituiscono – ma ignora del tutto la semantica – vale a dire il suo senso, che poi è l’unica cosa che davvero conti.

Ecco perché anche il computer più potente del mondo (capace per esempio di risolvere correttamente e in un baleno equazioni a cento incognite), non potrà mai transitare dalla dimensione quantitativa a quella qualitativa, che sarebbe la sola cosa da fare per parlare in modo credibile di intelligenza artificiale, ma che nessuno potrà mai garantire, neppure fra mille anni.

Perciò il computer è per definizione stupido: perché incapace in linea di principio di cogliere il senso della realtà; di comprendere ciò che fa o che non fa; di conoscere il mondo e di auto-conoscersi. Esso potrà forse simulare gli effetti del cervello umano, ma in nessun caso potrà far proprie le ragioni della mente: l’abisso fra quello e questa rimane in linea di principio incolmabile.

Fa perciò solo sorridere leggere che un computer può scrivere poesie. Certo, potrà emettere sequenze di termini che siano già stati immessi dal programmatore, anche poeticamente evocativi, ma senza sapere ciò che fa: non sarà mai allievo della Musa.

Come un pappagallo che ripete continuamente ciò che gli è stato dato modo di sentire. Questo dunque forse il modo più acconcio di definire il computer: un raffinato (e costoso) pappagallo artificiale.

 

05 aprile 2023

Il paradosso è che le bollette in Sardegna sono le più alte d'Italia.


Per quanto concerne l’energia elettrica, la Sardegna attualmente produce circa 12mila e 335 gigawatt all’ora a fronte dei consumi netti pari a 8mila e 426 gigawatt all’ora. Questo vuol dire che la produzione netta di energia elettrica generata sul territorio regionale è maggiore del 40,8% del fabbisogno netto isolano. Oltre il 40% dell’energia prodotta in Sardegna non viene utilizzata nell’isola e in gran parte dei casi viene esportata. (fonte: Regione Autonoma della Sardegna).

Il paradosso è che le bollette in Sardegna sono le più alte d'Italia.

La Sardegna, quindi, produce energia elettrica più di quanto gliene serva ma i cittadini pagano più del resto d’Italia.
Le concessioni, che interessano chilometri su chilometri di tratti di mare sardi, potrebbero compromettere in maniera irreversibile gli equilibri dell'ecosistema della flora e della fauna marina, nonché ovviamente il paesaggio naturalistico tipico della Sardegna.
Sono tantissimi i progetti presentati per la realizzazione di parchi eolici offshore in Sardegna. Parliamo di centinaia e centinaia di aerogeneratori alti più di 270 metri l’uno, come se in mezzo al mare venisse conficcata una selva di grattacieli da 90 piani ciascuno.
Le concessioni, che interessano chilometri su chilometri di tratti di mare sardi, potrebbero compromettere in maniera irreversibile gli equilibri dell’ecosistema della flora e della fauna marina, nonché ovviamente il paesaggio naturalistico tipico della Sardegna.
Ogni pala sarà più alta della Torre di Pisa, il doppio della ruota panoramica di Londra. Il paesaggio tipico della Sardegna, quello che abbiamo sempre conosciuto e che attira visitatori da tutto il mondo, andrebbe perso per sempre.
Cittadini, enti, ricercatori, visitatori, liberi professionisti ed operatori economici che operano in ambiti dove il paesaggio assume un ruolo determinante potrebbero subire conseguenze negative non prevedibili e non analizzate all’interno dei progetti.
Ricordiamo che la tutela del paesaggio e dell’ambiente rientra tra i principi fondamentali della costituzione della repubblica italiana.
All’Articolo 9:
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.”
Oltre ai progetti dell’eolico in mare, vi sono poi i progetti su terra che hanno un impatto uguale, se non addirittura peggiore, dei primi.
I basamenti degli aerogeneratori hanno un impatto devastante, metri cubi di cemento armato da cavi d’acciaio spessi diversi centimetri che rimarranno per sempre, anche qualora si volesse rimuovere la turbina.
Qualora i progetti si realizzassero, porterebbero dei cambiamenti drastici irrimediabili. Le concessioni di questi super impianti variano dai 40 ai 50 anni, più le dovute proroghe e nuove concessioni. Questo vuol dire che non si potrà tornare in dietro, il paesaggio cambierà e non potremo più vederlo com’era prima, se non nella nostra immaginazione o in vecchie fotografie. Le future generazioni cresceranno senza poter conoscere le località com’erano originariamente. Questo è il prezzo da pagare per dare energia al resto d’Italia, meno che ai sardi.

01 dicembre 2022

La crisi climatica è la vera pandemia.

Ormai nessuno dubita che il riscaldamento globale stia accelerando a causa dell'azione umana e  i negazionisti del cambiamento climatico hanno esaurito gli argomenti per sostenere la loro posizione. 


Circa cinque anni fa, ricordo conversazioni con amici che dicevano: " Siamo nell'era del 'Voglio tutto e lo voglio adesso' , ma passerà presto, arriveranno altri dilemmi".  Continuiamo ad essere in ritardo per tutto perché non c'è niente che ci duri per sempre , non riusciamo a tenerlo. Tranne le crisi, che sembrano eterne, come quella climatica , che è anche crisi sociale ed economica che ci devasta.

A questa situazione di continua immediatezza si aggiunge il sovraccarico di informazioni , gli stimoli ci arrivano da tutte le parti da quando prendiamo in mano un dispositivo elettronico quando apriamo gli occhi ogni mattina, e siamo incapaci, nella maggior parte dei casi, di discernere tra ciò che merita davvero il nostro tempo e ciò che è solo un'altra perdita di tempo. I creatori di contenuti hanno molto a che fare con questo eccesso di finestre sul mondo, ed è qui che è così difficile per noi scegliere i canali da cui ricevere tali informazioni.

La bolla 'verde' o 'eco' è una di quelle che sta guadagnando più seguaci negli ultimi anni, poiché al momento quasi tutto è in grado di diventare 'sano', 'sostenibile' o 'ecologico'', ed è difficile per noi trovare un canale sui social network che trasmetta informazioni veritiere sull'ambiente in modo accessibile , al di là delle principali testate che tutti conosciamo. 

La crisi climatica è la crisi delle crisi. È uno tsunami che abbiamo visto arrivare e di cui siamo stati avvertiti per anni, ma anche così non ci siamo svegliati. Ed è che di solito commettiamo l'errore di credere che la crisi climatica sia proprio questo, una cosa climatica. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità.  Sono tre le grandi questioni che ne derivano: " I rifugiati, che sono i grandi dimenticati di questa crisi, ed è una questione molto grande; la transizione energetica e la pandemia in generale".

24 novembre 2022

Il Parlamento europeo chiede al Qatar di indagare sulla morte dei lavoratori e accusa la Fifa di danneggiare "seriamente" il calcio.

Il Parlamento europeo approva una risoluzione in cui la FIFA vieta ai calciatori di indossare il braccialetto OneLove e chiede il rispetto dei diritti umani nel Paese che ospita i Mondiali

Il Parlamento europeo accusa la Fifa di "seriamente danneggiare l'immagine e l'integrità del calcio mondiale". E chiede al Qatar il rispetto dei diritti umani e una "indagine esaustiva" sulle morti di lavoratori migranti nel Paese nella costruzione delle infrastrutture per il concorso, che secondo alcune informazioni giornalistiche salgono a 6.500 persone.

La risoluzione del Parlamento europeo approvata questo giovedì, dopo un'iniziativa di voto dell'eurodeputata francese Manon Aubry (France Insoumise / La sinistra), "mette in evidenza che l'UE è impegnata a sostenere i diritti umani nelle sue relazioni con il Qatar, comprese le questioni sollevate nel contesto della Coppa del Mondo FIFA; esprime preoccupazione per le notizie secondo cui centinaia di migliaia di lavoratori migranti devono ancora far fronte a leggi e pratiche discriminatorie in Qatar; deplora la mancanza di trasparenza e la mancanza di una valutazione responsabile del rischio che hanno caratterizzato l'assegnazione della Coppa del mondo al Qatar nel 2010; ricorda la sua opinione secondo cui la corruzione all'interno della FIFA è dilagante, sistemica e radicata.

Il testo approvato, condiviso da gruppi popolari, liberali, socialisti e ultraconservatori, “riconosce l'importante contributo dei lavoratori migranti all'economia del Qatar e ai Mondiali del 2022; esorta le autorità del Qatar a svolgere un'indagine completa sulla morte dei lavoratori migranti; sostiene gli sforzi del Qatar volti a migliorare le proprie condizioni di lavoro ei propri diritti, sollevati dalla comunità internazionale; chiede la piena attuazione delle riforme adottate; accoglie con favore la cooperazione del Qatar con l'OIL; invita il Qatar a continuare a lavorare con l'OIL sulle riforme; sottolinea che la responsabilità d'impresa, anche per le imprese europee, richiede il rispetto dei diritti dei lavoratori e lo stesso livello di dovuta diligenza richiesto nell'UE”.

La mozione afferma inoltre che "la FIFA ha assegnato al Qatar la Coppa del mondo senza esercitare la due diligence sui diritti umani o sull'ambiente o stabilire condizioni per la protezione dei lavoratori migranti" e che il Qatar "ha vinto la gara per la Coppa del mondo tra accuse credibili di concussione e corruzione che hanno portato a indagini giudiziarie.

Allo stesso modo, i deputati sottolineano che il codice penale del Qatar "punisce i rapporti sessuali extraconiugali, compresi i rapporti tra persone dello stesso sesso, con la reclusione fino a sette anni", include "arresti arbitrari di persone LGBTQ +, senza accusa né processo durante un massimo di sei mesi se "ci sono motivi probabili per ritenere che l'imputato possa aver commesso un reato", inclusa la "violazione della moralità pubblica", osserva che un ambasciatore della Coppa del Mondo "ha condiviso pubblicamente una dichiarazione omofoba"; sottolinea che “sette federazioni calcistiche, comprese quelle europee, hanno deciso che i propri giocatori possano indossare una fascia OneLove color arcobaleno; considerando che, tuttavia, la FIFA ha deciso che i giocatori possono ricevere un cartellino giallo o essere espulsi per aver indossato tale fascia,

La risoluzione, tuttavia, fa anche un cenno al Qatar, riconoscendo "che il Qatar è un partner importante dell'UE" e "che il Qatar ha un ruolo chiave da svolgere nell'attuazione della strategia europea di sicurezza energetica".

"L'impegno tra Ue e Qatar si è notevolmente intensificato, il che ha portato all'apertura di una delegazione Ue a Doha nel 2022", si legge nella risoluzione, che ricorda anche che il Qatar "ha co-sponsorizzato una risoluzione dell'Assemblea generale Conferenza delle Nazioni nel febbraio 2022 invitando la Russia a ritirarsi dall'Ucraina e ha votato a favore delle risoluzioni che condannano l'invasione russa dell'Ucraina".

Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), diverse aziende europee, come Carrefour, Banyan Tree, Fairmont Movenpick Pullman, Acciona, Qantum, Keolis, RATP e Technip, che sono fisicamente presenti in Qatar, si sono rifiutate di partecipare a comitati congiunti per riunire i rappresentanti della direzione e dei lavoratori per discutere, prevenire e risolvere i conflitti sul posto di lavoro. Inoltre, si segnala che la società olandese Core Laboratories non paga gli stipendi di alcuni dipendenti.


Non voglio parlare di politica...

Ho deciso di non parlare di politica perché, pur conoscendo tante parole e conoscendo centinaia di insulti, e nonostante riconosca in questo interscambio di insulti un certo piacere sportivo nello scoprire un termine più colto di un altro, fuori uso o più precisamente, questo non è il mio teatro. Vorrei vedere politici saggi e meno sofisti da circo. Vorrei che la mia memoria non fosse così buona e che in quelle recensioni non vedessi il riflesso delle stesse parodie di  anni fa, e mi mancano più fatti e meno rifiuti.
In questi giorni, in cui i politici di tutti i colori si travestono da guerrieri per lanciare offese come armi, noi, che vogliamo solo cure per i nostri mali, stiamo morendo di dolore. Qui, dove quel politico che sembra una brava persona, uno che nella sua carriera professionale è stato efficiente o un altro politico che parla molto bene, si mescolano per confonderci e darci le vertigini.
Abbiamo il privilegio di vivere in un paradiso, ma a volte ne paghiamo un prezzo troppo alto. Come se avessimo venduto la nostra anima al diavolo, vediamo come marciscono le gengive su quest'isola che grida per recuperare la sua essenza,
Vi dico già da questa pagina che non voglio parlare di politica, perché la maggior parte di noi non è di nessuno e ascolta tutti, devo solo riordinare un po' questo lavoro senza copione o garbo. Noi, la maggioranza dei comuni mortali, non andiamo ai comizi, in molte occasioni abbiamo scritto un nome su questa o quella scheda elettorale per punizione e non per convinzione, e ad ogni legislatura manca un po' più dell'illusione che ci hanno regalato ruberie tra fallacie, squalifiche e promesse non mantenute.
Perciò, a voi che ci rappresentate nell'una o nell'altra torre di guardia, vi prego di non essere stupidi, e di mettere tutta la vostra energia non solo per piacerci;  e che non vi uniate a nessuno per ottenere lo scettro d'oro, e che non diventiate licenziosi farabutti della vita.
Ci meritiamo grandi politici: nobili, colti e laboriosi, che mostrino carattere quando qualcuno minaccia i nostri interessi, perché i beni che amministrano non sono loro, ma nostri.
 

07 novembre 2022

Migranti, gli sbarchi in Italia.

 

Dagli anni ’90 in poi l’Italia - storicamente Paese di partenza di forti flussi migratori - è diventata punto di arrivo per migliaia di migranti, dall’Est Europa prima, dall’Africa Subsahariana e dal Medio Oriente dopo. È la sua posizione nel Mar Mediterraneo a renderla uno dei principali Stati di approdo europei, insieme a Spagna e Grecia. 

Dopo i grandi sbarchi in arrivo dall'Albania all’inizio anni ’90, dal 1997 i numeri dei migranti arrivati via mare in Italia sono tornati a crescere, questa volta alle prese con il tracollo delle società finanziarie. Gli arrivi via mare sono stati suddivisi in base ai governi e cioè:

XIII Legislatura (9 maggio 1996 - 9 marzo 2001)

Governo Amato II  - (25/04/2000 – 11/06/2001) Sbarchi 26.817 + 20.143

Governo D'Alema II -  (22/12/1999 – 25/04/2000) Sbarchi 49.999

Governo D'Alema -  (21/10/1998 - 22/12/1999) Sbarchi 38134

Governo Prodi - (17/05/1996 – 21/10/1998) Sbarchi 22.343

XIV Legislatura (30 maggio 2001 - 27 aprile 2006)

Governo Berlusconi III - (dal 23 aprile 2005 al 17 maggio 2006) Sbarchi - 22.939

Governo Berlusconi II - (dall'11 giugno 2001 al 23 aprile 2005) Sbarchi 22.016

XV Legislatura (28 aprile 2006 - 6 febbraio 2008)

Governo Prodi II - (dal 17 maggio 2006 al 6 maggio 2008) Sbarchi  22.016 + 20.445 + 36951

XVI Legislatura (dal 29 aprile 2008 al 23 dicembre 2012)

Governo Monti - (dal 16 novembre 2011 al 27 aprile 2013) Sbarchi 62.692 + 13.267

Governo Berlusconi IV - (dall'8 maggio 2008 al 16 novembre 2011) Sbarchi 36.951 + 9.573 + 4.406

XVII Legislatura (dal 15/03/2013 al 22/03/2018)

Governo Gentiloni - (dal 12/12/2016 al 01/06/2018) Sbarchi 119.369

Governo Renzi - (dal 22/02/2014 al 12/12/2016) Sbarchi 170.100 + 153.842 + 181.436

Governo Letta -  (dal 28 aprile 2013 al 21 febbraio 2014) -  Sbarchi 42.925

XVIII Legislatura (dal 23 marzo 2018 al 12 ottobre 2022)

Governo Draghi - (dal 13 febbraio 2021 al 22 ottobre 2022) Sbarchi 67.040 + 87.370

Governo Conte II - (dal 05/09/2019 al 13/02/2021) Sbarchi -  14.471 + 34.154

Governo Conte -  (dal 01/06/2018 al 04/09/2019) Sbarchi 23.370

XIX Legislatura (dal 13 ottobre 2022)

Governo Meloni -  (dal 22 ottobre 2022) 

Per un totale di 1.292.517 di migranti arrivati in Italia dal 1997 al 2022 – 25 anni. Con una media di 51.700,68 migranti all’anno.

È da notare che al 4 novembre 2022, gli sbarchi segnalati dal Viminale in Italia sono 87.370, principalmente di nazionalità egiziana, tunisina, bengalese, siriana e afghana.

04 novembre 2022

Conte da avvocato del popolo a Mr. Bean della politica italiana il passo è breve, e nessuno l’ha imparato meglio dell’ex premier.

Immaginate per un attimo di trovarvi nei panni del biografo ufficiale di Giuseppe Conte e di dover assolvere al (difficile) compito di scrivere una memoria che possa restituire il ritratto di un uomo tormentato e mettere in fila le fasi che hanno scandito il suo (travagliato) percorso politico.

Siete seduti alla scrivania da ore e fissate lo schermo sconsolati, attendendo un segnale dall’alto che possa consentirvi di buttare giù un incipit per quanto possibile decoroso; il tempo passa, i caffè e le sigarette aumentano, ma la solfa non cambia: vi rendete conto che scacciare lo spauracchio della pagina bianca è impossibile.

Vi fermate a pensare, indagando le cause che hanno generato la vostra stasi. Dopo una lunga pausa di riflessione, ne individuate almeno tre: gli spunti narrativi sono tantissimi, così tanti che sceglierne uno significherebbe fare un torto a tutti gli altri; le tesi si contraddicono tra loro, smentendosi a vicenda e impedendo alla narrazione di ingranare; e, soprattutto, lo spazio temporale in cui dovrebbero dipanarsi gli eventi (meno di 4 anni) è decisamente troppo ristretto per contenere la miriade di aneddoti, frasi a effetto, lotte fratricide, ascese, cadute e risalite che hanno reso l’arco di trasformazione contiano un unicum.

Sì perché, anche se può suonare straniante, nella lunga epopea della politica italiana Giuseppe Conte rappresenta una parentesi breve e trascurabile: si è affacciato sulla scena politica nel maggio del 2018, grazie a un colpo di teatro targato Salvini-Di Maio che ha agevolato la sua ascesa, trasformando un anonimo professore universitario di stanza a Firenze in un altrettanto anonimo presidente del Consiglio.

Da quel maggio schizofrenico abbiamo conosciuto diversi Giuseppe Conte: in principio l’avvocato del popolo, garanzia del mantenimento dell’alleanza giallo-verde, firmatario entusiasta di ben due Decreti sicurezza (uno più schifoso e ignobile dell’altro) e burattino nelle mani di un ministro dello Sviluppo Economico convinto di aver abolito la povertà con una mancetta e di un ministro dell’Interno che non perdeva occasione per urlare a squarciagola che «per i clandestini è finita la pacchia»; nel  mezzo  il premier trasformista che, in un raro lampo di lucidità, dà sfoggio di tutto il suo coraggio e, emulando il sussulto di dignità di Fantozzi nella storica partita a biliardo con l’Onorevole Catellani, sceglie di ribellarsi al padrone e risolvere una crisi di governo nella maniera più democristiana possibile, ossia passando senza il minimo di pudore nel campo dei nemici; la terza fase del Conte politico è quella di un uomo che prova a mostrarsi rassicurante agli occhi di un popolo che si sta innamorando incomprensibilmente di lui, che non osa differire di una sillaba dall’agenda dettata da Rocco Casalino e che si trova a gestire in maniera dilettantistica una pandemia che sta mietendo migliaia di vittime e che ha preso il mondo intero in contropiede. Il quarto stadio è quello che ha messo in scena la caduta di un uomo rimasto solo, defenestrato da una vecchia volpe come Matteo Renzi e sostituito dalla figura più autorevole d’Europa.

La quinta stagione era iniziata da poco, e per la verità era partita con poco mordente: da idolo di una nazione a capo politico di un partito morente e cannibalizzato dalle sue stesse contraddizioni e – dopo il danno, la beffa – costretto pure a contendersi la carcassa con il Luigi Di Maio.

Conte da avvocato del popolo a Mr. Bean della politica italiana il passo è breve, e nessuno l’ha imparato meglio dell’ex premier. Consoliamoci, però; se l’incipit per il nostro memoriale rappresenterebbe un ostacolo a tratti insormontabile, per la conclusione avremmo la strada spianata: «Passano gli anni, ma per Giuseppe Conte perdere è sempre un’avventura meravigliosa».


19 ottobre 2022

Il Parlamento europeo chiede di installare caricatori per auto elettriche ogni 60 chilometri.

Afferma inoltre stazioni per rifornire di idrogeno verde ogni 100 chilometri sulle strade principali dell'Unione Europea entro il 2026.

Il Parlamento europeo ha chiesto questo mercoledì l' installazione di caricabatterie per veicoli elettrici ogni 60 chilometri sulle strade principali dell'Unione per l'anno 2026 e stazioni per rifornire di idrogeno verde ogni 100 chilometri.

Questa è la posizione del Parlamento europeo in relazione a un disegno di legge che ora deve essere negoziato con gli Stati membri, dopo essere stato sostenuto in plenaria da 485 voti favorevoli, 65 contrari e 80 astenuti, e concordato un testo definitivo per promuovere l'uso auto ecologiche, al fine di raggiungere l'obiettivo europeo di ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030.

Secondo il testo approvato dal Parlamento, l'obbligo di stabilire dei caricatori ogni 60 chilometri si applicherà anche agli autocarri e agli autobus , ma solo su alcune strade, con stazioni più potenti e con eccezioni per le isole e le strade poco trafficate.

Inoltre, la posizione del Parlamento Europeo con le stazioni di rifornimento di idrogeno verde accresce i requisiti che, inizialmente, la Commissione Europea aveva posto, poiché pretende di installarle ogni 100 chilometri, invece dei 150 proposti dall'Esecutivo Comunitario, e di fallo prima del 2028, e non prima del 2031 , che è stata l'idea di Bruxelles.

I deputati hanno inoltre convenuto di imporre obiettivi minimi a ciascuno Stato membro per lo spiegamento di tutte queste infrastrutture per i combustibili alternativi e propongono di concedere ai governi nazionali tempo fino al 2024 per presentare i loro piani su come intendono raggiungere i requisiti.

Tuttavia, il Parlamento intende che le nuove stazioni di rifornimento verdi siano accessibili a tutte le marche di veicoli e facili da pagare, con un prezzo "abbordabile" e "comparabile" , sottolineano i deputati, che chiedono anche la centralizzazione dei dati di tutte queste stazioni prima del 2027, in modo che il consumatore conosca disponibilità, tempi di attesa e prezzi in tutta l'UE.

Oltre a questa iniziativa, la Camera comunitaria ha anche preso posizione sul disegno di legge che mira a regolamentare l'uso di combustibili rinnovabili nel trasporto navale, e in cui i deputati hanno convenuto che il settore marittimo riduca progressivamente le emissioni di gas serra delle navi: 2% dal 2025 , 20% nel 2035 e 80% nel 2050 , rispetto al livello del 2020, che è quello che prendono come riferimento.

Anche questa posizione, che è risultata in vantaggio con 451 voti favorevoli, 137 contrari e 54 astenuti, rappresenta un aumento delle pretese della Commissione, che inizialmente proponeva una riduzione del 13% entro il 2035 e del 75% entro il 2050.

Secondo il testo approvato dalla plenaria, questo regolamento si applicherà alle navi di stazza lorda superiore a 5.000 tonnellate, responsabili, sottolineano i deputati, di quasi il 90% delle emissioni di anidride carbonica.

La Camera comunitaria vuole anche che le navi portacontainer e passeggeri utilizzino la fornitura di energia elettrica quando attraccano nei principali porti dell'UE a partire dal 2030, al fine di ridurre l'inquinamento atmosferico alle banchine.

La plenaria si è espressa a favore dell'istituzione di sanzioni per coloro che non rispettano questo eventuale regolamento, che ora deve essere concordato anche con gli Stati membri, e i deputati hanno chiesto che il ricavato delle sanzioni sia utilizzato per promuovere la transizione ecologica nel settore marittimo settore.

Il popolo ucraino, Premio Sacharov del Parlamento europeo.

Il premio riconosce il "coraggio e la resistenza" di Zelensky e delle organizzazioni della società civile.

Il popolo ucraino, rappresentato dal suo presidente, Volodimir Zelenski , e dalle organizzazioni della società civile, ha vinto mercoledì il Premio Sacharov per la libertà di pensiero, il più alto riconoscimento assegnato dall'Unione europea nel campo dei diritti umani.

La Presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ha annunciato prima dell'emiciclo riunito a Strasburgo (Francia) che il Premio Sacharov di quest'anno andrà al popolo ucraino, dopo essere stato nominato dai gruppi popolari, socialdemocratici e liberali, e dai conservatori chiesto di premiare specificamente Zelensky.

"C'è stato consenso su questa decisione. Negli ultimi nove mesi, il Parlamento europeo e il mondo hanno visto gli ucraini difendere eroicamente il loro Paese, le loro libertà, le loro case e le loro famiglie. Stanno anche rischiando la vita per l'Europa, per salvaguardare i valori in cui tutti crediamo", ha detto Metsola.

Il premio, dotato di 50.000 euro, riconosce il "coraggio e la resistenza" di Zelensky , nonché il ruolo dei Servizi di emergenza statali dell'Ucraina; la fondatrice dell'unità di evacuazione medica di Angeles de Taira, Yulia Pajevska; l'avvocato e attivista per i diritti umani Oleksandra Matviychuk; il Movimento di Resistenza Civile del Nastro Giallo e il sindaco della città ucraina di Melitopol, Iván Fiódorov.

Il premio sarà consegnato nel corso di una cerimonia durante la sessione plenaria di dicembre a Strasburgo.

29 settembre 2022

Il prossimo obiettivo di Putin è la Moldavia

Gli ucraini che guidano l'offensiva nel sud del Paese affermano che le truppe di Mosca sono demoralizzate, ma avanzano a fatica.

Dmitro Pletenchuk è nato in Siberia nel 1981. "La mia famiglia ha subito ritorsioni durante l'Unione Sovietica, ma i miei genitori sono riusciti a tornare in Ucraina quando ero molto giovane", ricorda. Con la caduta dell'URSS, furono divisi. "Molti dei miei parenti erano militari, quindi la maggior parte ha continuato nei ranghi dell'esercito russo", dice. Tuttavia, combatte per l'Ucraina da quando è scoppiata la guerra nel Donbas nel 2014, come portavoce delle forze armate nella città meridionale di Mykolaiv.

Da qui molte delle operazioni della controffensiva sono ora riuscite a recuperare Kherson, la città più importante in mano ai russi. Nonostante Pletenchuk assicuri che il suo nemico è "demoralizzato", i missili russi continuano a piovere sulla zona e i soldati ucraini non riescono ad avanzare come a Kharkov, dove hanno messo in scena il vertiginoso contrattacco che ha sorpreso il mondo e ha costretto il ritiro e la mobilitazione del nemico. "La Russia sta lanciando bombe da 500 chilogrammi e sta attaccando con l'artiglieria, ma le nostre forze armate mantengono il controllo", aggiungono dal loro dipartimento.

Pletenchuk non esclude che, a un certo punto, dovrà combattere contro i suoi stessi parenti. “Non siamo in contatto dal 2008, perché i miei cugini hanno partecipato all'invasione russa della Georgia. Già allora siamo stati avvertiti che l'Ucraina sarebbe stata la prossima. Mi sento come mio nonno, che ha dovuto difendere Mykolaiv durante la seconda guerra mondiale. Ciò che è cambiato è il nemico", aggiunge.

L'Ucraina dice che si sta muovendo lentamente, ma Mosca è testarda nel definire la controffensiva un fallimento. Entrambe le parti affermano di aver inflitto molte più vittime del nemico: l'Ucraina afferma di aver ucciso ieri 400 soldati russi - più di 55.000 dall'inizio dell'invasione - e la Russia risponde che l'Ucraina ha perso più di 1.700 soldati nei primi due giorni della Solo invasione Kherson controffensiva.

Mentre entrambe le parti fanno del loro meglio per tirare fuori il petto, l'Ucraina è sempre più un paese in rovina. Un esempio dell'enorme devastazione che sta subendo è la sede della Pubblica Amministrazione di Mykolaiv, davanti al cui scheletro annerito Pletenchuk parla con EL CORREO. Da quel poco che resta dell'ultimo piano, pieno di macerie, il soldato punta il dito verso i cantieri navali di Mykolaiv e sottolinea una delle grandi ironie della guerra: "Qui è stata costruita la 'Moskva' nel 1979, l'ammiraglia della Marina russa che abbiamo affondato ad aprile.

Nonostante ciò, i militari sono particolarmente preoccupati per la forza navale russa. “La più grande minaccia sono le navi da guerra nel Mar Nero. I missili che lanciano danno alla Russia un notevole vantaggio", dice. Sono il punto di osservazione perfetto per attaccare la città e svolgono un ruolo chiave nel soffocare il commercio ucraino.

Risuscitare l'Unione Sovietica

"Il vero obiettivo di Vladimir Putin è continuare a diffondere il suo desiderio imperialista e raggiungere Trasnistria, dove ha già una certa presenza militare, e da lì attaccare il resto della Moldova", avanza. Pletenchuk è convinto che il presidente russo voglia rilanciare l'Unione Sovietica, la cui caduta Putin considera "la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo". Per questo Pletenchuk sostiene che l'Occidente deve continuare a sostenere la resistenza ucraina senza crepe. "Se non fermiamo la Russia ora, continuerà la sua espansione imperialista in tutta Europa, proprio come fecero Hitler o Stalin", avverte.

Per raggiungere il suo obiettivo, Pletenchuk considera vitali le armi inviate dagli Stati Uniti e dall'Europa. “Da quando hanno ottenuto il controllo di Mariupol, per i russi è più facile rifornirsi e hanno più armi di noi. Ma l'Ucraina ha un esercito professionale e motivato. Combattiamo per il nostro Paese, mentre i russi non sanno perché lo fanno. E i soldi non sono una motivazione sufficiente per morire", spara, sapendo che se la sua offensiva fallisce, Mykolaiv potrebbe cadere e aprire la strada al porto principale dell'Ucraina, Odessa.

Fonte: Zigor Aldama 


22 settembre 2022

Spunti per un'analisi di medio periodo sull'invasione dell'Ucraina da parte della Russia.

Articolo di Gorgio Comai.

In questa riflessione, non parlerò delle dinamiche immediate del conflitto, della tragedia umana e umanitaria in corso, né tratterò di soluzioni per il breve periodo. Piuttosto, cercherò di offrire alcuni spunti per comprendere e interpretare quanto sta avvenendo, ragionando sul perché si è arrivati a questa guerra, su cosa le dinamiche che hanno portato all’inizio di questa guerra ci possono dire riguardo ai prossimi mesi, e sugli aspetti che trovo preoccupanti cercando di immaginare scenari di medio periodo.

In questo percorso, parlerò più della Russia che dell’Ucraina. Perché se è vero che la guerra si sta combattendo sul suolo ucraino e a scapito della popolazione ucraina, è a Mosca che si è deciso di iniziare la guerra. Ed è da qui che voglio iniziare: dagli obiettivi che la parte russa si è prefissata fin dall’inizio dell’intervento militare in Ucraina.

Tra gli obiettivi diretti più espliciti, evidenzio in particolare la “denazificazione” dell’Ucraina (questo il termine utilizzato da Mosca), la demilitarizzazione dell’Ucraina, e la difesa della popolazione del Donbas. Mi limito agli obiettivi diretti, e non approfondisco motivazioni politiche più ampie addotte nei mesi scorsi dal Cremlino, come ad esempio l’idea di contrastare l’avanzamento della Nato in Europa centro-orientale, anche perché sostanzialmente incompatibili con il percorso interventista scelto: a maggior ragione se l’invasione si fosse rivelata il grande successo auspicato da Mosca, sembra ovvio che questa avrebbe portato a un rafforzamento della Nato nei paesi limitrofi, non certo a una demilitarizzazione della regione. L’eventualità di un riarmo della Nato sul fronte orientale era presumibilmente ritenuta un effetto collaterale accettabile in cambio di un intervento di successo in Ucraina.

Nei primi giorni dell’invasione, la tutela della popolazione del Donbas era regolarmente presentata come motivazione principale dell’intervento sui principali canali televisivi russi. Si parlava infatti costantemente di “operazione militare speciale per la difesa della popolazione del Donbas” e la retorica dominante era quella da “guerra umanitaria”. Nonostante il grande sforzo mediatico dedicato a promuovere questo aspetto, anche solo considerando il fatto che gran parte dell’avanzata militare russa nelle prime settimane ha avuto luogo a centinaia di chilometri di distanza dal Donbas, pare poco credibile che questo fosse effettivamente il principale obiettivo diretto dell’invasione.

Il secondo obiettivo dichiarato è quello di più difficile interpretazione visto da fuori della Russia, ma è quello che secondo me si può ritenere a tutti gli effetti l’obiettivo diretto principale che ha portato all’invasione, ovvero, la “denazificazione” dell’Ucraina, con tutto ciò che questo comporta.

Chi sono i “nazisti”?

Commentando l’idea di “denazificazione”, o della presenza di “nazisti” al governo in Ucraina - questa l’accusa russa - la reazione tipica è quella di cercare di ragionare sulle forze di estrema destra o sull’antisemitismo in Ucraina. C’è ad esempio chi sottolinea che con l’eccezione di una breve fase successiva alla guerra del 2014, l’estrema destra in Ucraina non è mai stata eccezionalmente influente, e da tanti punti di vista è più marginalizzata che in tanti paesi d’Europa. Oppure si dibatte di figure storiche problematiche, come Stepan Bandera, spesso più celebrate che condannate nell’Ucraina di oggi. Si tratta di dibattiti legittimi, ma, nel contesto dell’invasione, effettivamente irrilevanti, perché partono da un fraintendimento su cosa effettivamente voglia dire “nazista” in Russia oggi, un fraintendimento che scaturisce da una diversa memoria della Seconda guerra mondiale e da una diversa interpretazione di cosa rappresenta la fine di quella guerra.

In Russia, la Seconda guerra mondiale, ricordata come “grande guerra patria”, non è ricordata principalmente per l’Olocausto o per le politiche repressive di fascisti e nazisti, ma prima di tutto come una guerra contro l’Unione sovietica, contro la Russia. In Russia, la Seconda guerra mondiale non è stata quindi prima di tutto una guerra contro il totalitarismo (e come potrebbe esserlo, visto che la vittoriosa URSS era guidata da Stalin), o una guerra che ha avuto tra le vittime più riconoscibili gli ebrei d’Europa… prima di tutto, è stata una guerra contro l’URSS. Se nella storiografia sovietica si insisteva anche sull’elemento ideologico (una guerra contro il comunismo), questa tendenza è evidentemente andata a sparire nel periodo post-sovietico. A differenza di come è ricordata in gran parte d’Europa, la Seconda guerra mondiale in Russia, ovvero, la “grande guerra patria” è iniziata nel 1941: ad oggi, è raccontata come una guerra contro l’URSS, contro i russi, per distruggere la Russia.

“Nazista” oggi significa quindi in primo luogo “anti-russo”, in una linea interpretativa che evidenzia orgogliosamente la continuità tra URSS e Russia, insistendo in particolare sulla Russia come forza principale che ha sconfitto il nazismo in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Se ci sia o non ci sia l’estrema destra in Ucraina non è rilevante da parte russa, anzi, come è noto, la vicinanza politica tra la leadership russa e varie espressioni di forze di estrema destra in Europa e negli Stati Uniti è stata in passato del tutto esplicita, e parzialmente rinnegata da noti esponenti di partiti di estrema destra solo molto recentemente. Una certa sintonia su varie questioni evidentemente rimane.

Un altro termine percepito come contiguo, anche per assonanza, è quella tra “nazi” e “nazionalista”. Sulle televisioni russe, ad esempio, in riferimento alla leadership o all’esercito ucraino si utilizzano espressioni come “bande di nazionalisti”. Ma da parte russa, il nazionalismo ucraino è problematico solo nella misura in cui è percepito come “anti-russo”: non è infatti problematica la destra nazionalista di Orbán in Ungheria, né quella di Le Pen in Francia. Ciò che è rilevante è la misura in cui queste forze nazionaliste siano percepite come “anti-russe”.

Cosa vuol dire essere “anti-russo”? Nella logica avanzata da Putin nei suoi recenti interventi a tema storico, immaginare una nazione ucraina separata dalla Russia vuol dire essere “anti-russo”, vuol dire voler spezzare la presunta unità dei popoli slavi legati alla Rus’ storica: russi, bielorussi, e ucraini. In questa chiave di lettura, “anti-russo”, e quindi “nazi”, non è solo chi si potrebbe definire un nazionalista in Ucraina, ma in sostanza chiunque creda che l’Ucraina - come stato e come popolo che vi abita - non sia parte indissolubile della Russia, non sia parte del popolo russo. Con queste premesse è possibile capire perché da parte russa si insista su come il governo ucraino sia in mano a nazisti e che l’Ucraina sia piena di nazisti e abbia bisogno di essere “denazificata”.

Questa narrativa, e più in generale la presunta onnipresenza di nazisti in Ucraina, suscita certo perplessità anche tra la popolazione russa. Secondo un’inchiesta pubblicata dal media investigativo russo Proekt  infatti, sondaggi effettuati su richiesta del Cremlino nell’aprile di quest’anno per verificare l’efficacia della comunicazione sulla guerra avrebbero rivelato che l’insistenza sulla “denazificazione” era fonte di incomprensione nel pubblico russo. Il termine è quindi ora meno utilizzato nei media russi, ma rimane nondimeno espressione diretta delle fondamenta ideologiche che hanno portato a questa guerra.

Mi sono dilungato su questo aspetto, per evidenziare come alcune delle dinamiche che hanno portato a questa guerra abbiano bisogno di una traduzione concettuale, più che letterale. Partendo da queste premesse, possiamo però capire come l’Ucraina, l’identità ucraina, l’esistenza di un’identità ucraina, sia effettivamente la questione principale diretta che ha portato a questa guerra. Dal punto di vista del Cremlino, nell’ottica di questa guerra, Nato e Unione europea sono un problema principalmente perché rappresentano strade che portano ad un’Ucraina meno “russa”, meno parte del mondo russo. La minaccia non è quindi evidentemente militare – anche nell’immaginario più paranoico, è difficile ritenere che le repubbliche baltiche o la stessa Ucraina possano un giorno decidere di invadere la Russia - ma in primo luogo identitaria.

C’è ovviamente spazio per ragionamenti più ampi sull’architettura della sicurezza europea, e certo anche per criticare alcune delle politiche dei governi occidentali, l’allargamento della NATO, cose fatte o dette, l’ipocrisia, le mezze promesse, ma tutto questo è, di per sé, poco utile per spiegare o capire gli eventi di questi mesi.

Se ci sono responsabilità di lungo periodo da parte occidentale, ritengo che queste siano di carattere meno diretto e riguardino in particolare gli eventi che hanno portato al fallimento della transizione economica e politica negli anni Novanta in Russia, nonché alcune delle dinamiche che hanno portato al rafforzamento di un regime autoritario in Russia negli anni successivi. Si può anche ricordare il ruolo che vari attori in Europa – in modo più evidente il Regno Unito, ma non solo - hanno avuto nel favorire il reinvestimento in Europa di grandi capitali emersi da corruzione e clientelismo in Russia: un’appropriazione criminale su ampia scala effettuata con il favoreggiamento di entità europee che ha contribuito ha solidificare il sistema di governo di Putin e a impoverire il paese.

Su questi aspetti torno tra poco.

Prima di procedere, voglio però condividere qualche riflessione sul ruolo del presidente della Federazione russa, Vladimir Putin.

Putin, e perché l’invasione era necessaria e urgente.

Per tanti anni, chi si occupa di Russia si è ritrovato ad insistere sull’importanza di pensare alla Federazione russa senza concentrarsi sempre e solo su Putin, oggetto di un’ossessione mediatica straordinaria. Eppure, in questa fase, è innegabile il ruolo determinante del presidente russo, e più in generale il fatto che l’invasione dell’Ucraina sia stata pensata e fortemente voluta da Putin stesso.

Si è molto parlato dell’isolamento di Putin anche dai suoi alleati più stretti in quest’ultimo paio d’anni, in particolare a partire dall’inizio della pandemia. C’è chi dice che Putin non sappia davvero cosa accade, perché si è circondato di persone che vogliono solo assecondarlo, ed in parte probabilmente è vero. Clientelismo, corruzione, e repressione, non sono certo gli ingredienti migliori per avere un processo decisionale funzionale o informazioni oneste sullo stato delle cose.

Ma non è solo questo il problema. Come ha ripetutamente dichiarato lui stesso, Putin è ricorso a misure estreme perché è convinto di dover salvare la nazione russa da una minaccia imminente e di tipo esistenziale. Già nel 2021 spiegava in un suo intervento  come “la formazione di uno stato ucraino etnicamente puro, aggressivo nei confronti della Russia, è comparabile nelle sue conseguenze all'impiego di armi di distruzione di massa contro di noi”. Esternazioni di questo tenore sono apparse di nuovo nei giorni che hanno segnato l’inizio dell’invasione.

Anche se non l’ha detto esplicitamente, pare evidente che sia convinto di essere l’unica persona in grado di salvare la nazione russa da questa minaccia, e che senta di non potersi fidare neppure delle persone del suo entourage, tra cui si annoverano a suo avviso ingenui affascinati dall’Occidente o persone che non hanno il coraggio di fare ciò di cui vi è bisogno. In definitiva persone che in buona parte non sentono l’urgenza e la dimensione storica del rischio, o che non lo percepiscono come esistenziale. Non si rendono conto che la Russia sta perdendo l’Ucraina, e che l’unità del popolo russo è quindi fondamentalmente minacciata.

Chi ha deciso “bisogna invadere ora”, è stato Vladimir Putin. E l’ha deciso, sapendo che la maggior parte delle persone intorno a lui non la consideravano neppure come un’opzione. Fino a pochi giorni prima dell’invasione, non solo membri del governo, ma come è poi emerso da intercettazioni, anche gran parte dell’esercito stesso non era conscia che stava effettivamente per entrare in guerra. È stata preferita la segretezza alla preparazione – come è emerso anche nelle prime settimane di guerra, quando è apparsa impietosamente evidente l’impreparazione logistica dell’esercito russo.

È anche perché sa di avere attorno a sé persone che non sentono l’urgenza di questa sua missione che Putin si ritiene insostituibile, e che ritiene di avere una missione storica da completare prima che sia troppo tardi. Per ragionare e concentrarsi sul suo lascito storico in questi ultimi anni Putin ha in buona parte trascurato la gestione di dinamiche interne, che a quanto pare sempre meno lo interessavano – in netto contrasto con i primi anni della sua presidenza.

In pratica, ed a prescindere degli sviluppi dei prossimi mesi, è chiaro che le azioni di queste settimane ottengono l’esatto contrario di ciò che si proponevano di fare: un’identità nazionale ucraina più forte, basata ora sì, plausibilmente, su basi più esplicitamente anti-russe; una rimilitarizzazione dell’Europa centro-occidentale, che torna a vedere ad est la minaccia più immediata, in parte rivedendo politiche di difesa che erano sempre più mirate al terrorismo internazionale; una rinnovata legittimazione della Nato; infine, un crollo economico in Russia che, da molti punti di vista, elimina quello che storicamente è stato il più grande elemento di legittimazione interna di Putin: il superamento della miseria economica e sociale degli anni Novanta, e la sua presunta capacità di offrire stabilità e progressiva crescita economica.

Al di là del fallimento delle politiche di Putin – non solo negli ultimi mesi, ma almeno nell’ultimo decennio, comunque le si voglia misurare – se si accettano le premesse di cui sopra, probabilmente gli eventi di queste settimane rafforzano più che smentire le convinzioni di Putin: davvero c’era urgenza di intervenire, e anzi, quanto avvenuto in queste settimane dimostra che effettivamente era già troppo tardi. Davvero l’Occidente era intento a spaccare e indebolire la nazione russa, utilizzando strumentalmente l’Ucraina a questo scopo.

Delineo queste premesse, per quanto insostenibili, perché purtroppo credo siano parte importante del perché c’è questa guerra, e del perché rimane difficile, quasi impossibile, immaginare negoziati funzionali a partire da queste premesse. E perché evidenziano una causa ancor più diretta della guerra in Ucraina, quella che a tutti gli effetti ritengo la causa principale di questa guerra: l’autoritarismo in Russia.

Una Russia anche solo un po’ meno autoritaria del paese che ha Putin per presidente nel 2022 non avrebbe lanciato un’invasione dell’Ucraina.

Autoritarismo in Russia e responsabilità dell’Occidente.

Se la causa principale di questa guerra è l’autoritarismo in Russia, è quindi a maggior ragione importante capire come si è arrivati all’attuale livello di autoritarismo in Russia, e quali sono gli elementi di legittimità che hanno permesso a Putin di consolidare il suo potere, permettendo che quello che era un sistema ibrido durante gli anni 2000 diventasse sempre più un sistema semi-autoritario, e poi pienamente autoritario.

Come accennato poco fa, la promessa di superare la miseria economica e sociale degli anni Novanta e di garantire stabilità e progressiva crescita economica, è stato il principale elemento che ha fornito legittimità al governo di Putin, e che continua ad essere utilizzato anche ad oltre vent’anni di distanza da quegli anni che hanno così profondamente caratterizzato la narrativa dominante sugli sviluppi della Russia post-sovietica.

In quale misura il relativo benessere degli anni 2000 sia effettivamente attribuibile a Putin è oggetto di discussione, anche considerando il fatto che le risorse economiche che hanno determinato quella fase di crescita sono emerse da dinamiche congiunturali relative al prezzo degli idrocarburi che hanno ben poco a che fare con chi sedeva al Cremlino. Ciò che è certo, è che effettivamente gli anni Novanta sono stati anni di grande miseria in Russia, anni durante i quali l’aspettativa di vita è crollata bruscamente e la parte di popolazione che viveva in povertà estrema si è moltiplicata. Anni in cui l’Occidente ha sostanzialmente sostenuto e promosso le politiche che hanno determinato questi sviluppi.

In molti infatti credevano davvero che la cosa più urgente ed importante fosse introdurre un’economia di mercato, non importa a quale costo, perché un’economia di mercato avrebbe impedito il ritorno del Partito comunista al potere, e, nel lungo periodo, avrebbe portato inevitabilmente alla democrazia. Altri probabilmente erano lieti di vedere una Russia indebolita, e quindi apparentemente meno minacciosa. Ad altri ancora, semplicemente, la questione non pareva urgente: l’Urss era finita, e la Russia non era più un problema.

Questo però ha avuto conseguenze. Perché il fallimento della transizione economica ha contribuito in modo determinante al fallimento della transizione politica. I “democratici”/“europeisti”/“filo-occidentali” sono rimasti associati alla miseria e alle umiliazioni degli anni Novanta. Si è quindi lasciato che la Russia, il più grande paese europeo, cadesse in rovina, creando il contesto per un revanscismo anti-occidentale e autoritario di cui vediamo oggi le tragiche conseguenze. Non era un processo inevitabile, ma a questo si è arrivati. Se vogliamo quindi ragionare su responsabilità occidentali di lungo periodo – e magari cercare nel passato recente spunti di riflessione per il futuro – ritengo che questa sia la più importante: non impegnarsi negli anni Novanta perché la Russia potesse avere una transizione economica e sociale dignitosa.

Scenari e prospettive.

Riparto da questo aspetto per tornare al presente. Ho delineato quali ritengo siano le principali cause dirette e indirette dell’attuale guerra. Da una parte, un’ossessione identitaria nel Cremlino che vede Ucraina (e Bielorussia) come parte inseparabile della nazione russa, e che individua nell’Occidente un nemico che sostiene determinate politiche in Ucraina (e Bielorussia) con il principale scopo di indebolire la Russia stessa. In questo senso la Russia, la nazione russa, in prospettiva storica, sarebbe vittima di un attacco di tipo esistenziale: per questo la Russia era minacciata, non si poteva attendere oltre, e quindi non c’era alternativa alla guerra.

In secondo luogo, l’autoritarismo in Russia, emerso e consolidatosi in parte in reazione a diffusa miseria e malessere sociale degli anni Novanta, rafforzatosi sulla base di un’equivalenza tra umiliazione personale e nazionale, e sull’identificazione dell’Occidente come principale causa sia della miseria che dell’umiliazione, riprendendo quindi un immaginario radicato anche in epoca sovietica per cui l’Occidente è costantemente intento a indebolire, se non proprio a distruggere, la Russia. I connotati ideologici di questo scontro sono nel frattempo spariti, solo in parte sostituiti da una retorica “conservatrice” e omofoba che presenta la Russia come un baluardo contro un Occidente depravato.

Partendo da queste considerazioni, condivido qualche riflessione sulle prospettive dei prossimi mesi e anni, e su alcuni aspetti che dovrebbero essere tenuti in considerazione in ottica di medio periodo.

È giusto auspicare che la guerra finisca al più presto, ad un tavolo negoziale, con la firma di un accordo di pace. Purtroppo, non vi è ancora traccia di effettivi negoziati, né è facile immaginarli nel breve periodo. Nei media russi ancora non vi è traccia di uno sforzo per definire un risultato, dal punto di vista politico e territoriale, che possa essere ritenuto soddisfacente; gli obiettivi non sono cambiati, e nella retorica pubblica per ora non si lascia spazio a voci favorevoli a qualsivoglia forma di compromesso. Anche lasciando da parte le richieste iniziali di “denazificazione” da parte russa, ammettendo un’apertura ucraina ad escludere un proprio ingresso nella Nato e – pur senza rinunciarvi formalmente – non esigere come condizione preliminare per un accordo la ritirata russa da Crimea ed aree controllate in Donbas prima dell’inizio delle ostilità nel febbraio di quest’anno, le posizioni continuano ad apparire distanti e inconciliabili.

È difficile immaginare come da parte ucraina si possa concedere sul tavolo negoziale il controllo di ampie aree che la parte russa attualmente non controlla - aree dove vivono milioni di persone - o di ampie parti delle regioni di Kherson e Zaporizhzhia attualmente sotto controllo russo, ma che si trovano ben oltre i territori di Donetsk e Luhansk che sono effettivamente gli unici sui quali da parte russa erano state avanzate delle pretese, seppure indirette.

È difficile immaginare che la Russia decida di ritirarsi completamente, in particolare dalle aree che ha ufficialmente dichiarato come non più parte dell’Ucraina (Crimea, e regioni di Donetsk e Luhansk), ma anche da aree che sta ormai controllando da oltre due mesi.

È difficile immaginare una vittoria militare piena in un senso o nell’altro, anche se in questo momento entrambe le parti credono di poter vincere con le armi più di quanto potrebbero realisticamente ottenere ad un tavolo negoziale.

A partire da queste premesse, lo scenario che pare più probabile è che dopo una fase attiva nelle prossime settimane, la guerra si trasformi un po’ alla volta in una guerra di posizione, e che se un qualche accordo ci sarà, questo rifletterà la situazione ottenuta dalle parti sul campo di battaglia. Non sarà quindi risultato di un compromesso negoziale, ma una constatazione di una situazione di fatto. Un cessate-il-fuoco, quindi, non un accordo di pace.

Anche in questa fase, una localizzazione del conflitto, e un minor coinvolgimento di civili sarebbero certo un passo avanti rispetto alle prime settimane di guerra, ma mostrano comunque uno scenario tragico, in cui un uso esteso di armamenti pesanti rimane molto probabile. Si delinea quindi una situazione di conflitto protratto nel medio periodo con devastanti effetti sulla popolazione civile, con milioni di sfollati e rifugiati, e vite spezzate da un confine de facto lungo una linea del fronte che si potrebbe consolidare.

Se questa è la prospettiva che ritengo più probabile – un conflitto protratto, forse con un cessate-il-fuoco, ma non con un accordo di pace – pare improbabile che le sanzioni imposte nei confronti della Russia possano essere ritirate nel breve e medio periodo. Si rischia in sostanza di avere un conflitto irrisolto tra due tra i più grandi stati europei, Ucraina e Russia, senza una cesura netta che possa fungere da base per una pace duratura.

Si prospetta una difficile ricostruzione in Ucraina, principale vittima di questo conflitto. Un percorso difficile, anche dal punto di vista politico e sociale, per superare la tragedia umana e umanitaria causata da questa guerra. Si prospetta inoltre una crisi economica e un sistema autoritario sempre più consolidato in Russia, il più grande paese europeo, che rischia di essere sempre più isolato dal resto dell’Europa. E infine un paese come la Bielorussia che rischia di seguirne il destino, nonostante le incoraggianti proteste che abbiamo visto negli ultimi anni.

Questo, temo, lo scenario di base. Ma molto può succedere in Russia, in Bielorussia, naturalmente in Ucraina, ma anche in Unione europea per fare in modo che le cose prendano una piega diversa e positiva, che la ricostruzione sia rapida, e che benessere, pace e pluralismo si affermino presto e in modo più duraturo anche in questa parte d’Europa.

Sanzioni e colpa collettiva.

Parto da queste osservazioni su quello che ritengo lo scenario di base per concentrarmi su cosa da parte nostra è importante tener presente per sviluppare politiche e pratiche utili per il medio periodo.

Iniziative di società civile e governi devono iniziare a immaginare un periodo prolungato in cui molte persone che hanno abbandonato l’Ucraina vi vorranno ritornare, ma avranno bisogno di assistenza per poterlo fare in maniera dignitosa. Altri, semplicemente, non potranno tornare, perché non hanno dove tornare o non sono intenzionati ad andare ad abitare in aree controllate dalle autorità russe. Altri ancora decideranno di tornare ad abitare in queste aree, anche se saranno controllate dalla Russia in modo più o meno diretto. Il nostro sostegno, dovrà andare anche a chi farà questa scelta, cercando in ogni modo di rendere il più trasparente possibile un confine de facto che potrebbe andarsi a creare; un aspetto delicato, su cui in passato si sono fatti degli errori, anche in Ucraina.

Senza entrare nei dettagli di tante questioni potenzialmente rilevanti, ci tengo almeno a toccare uno degli aspetti più dibattuti in Europa: quello delle sanzioni.

La storia di come le sanzioni sono diventate un elemento centrale dei contrasti internazionali è ormai lunga e profondamente dibattuta. Si discute dell’efficacia, degli effetti diretti e indiretti, degli effetti collaterali. Nel contesto attuale è dibattuto anche quale sia, in effetti, il reale scopo delle sanzioni: se lo scopo di sanzioni mirate a persone potenti vicine a Putin sia quello di promuovere defezioni interne all’élite, o addirittura un colpo di stato. Oppure se lo scopo di sanzioni diffuse sia quello di suscitare tale malcontento tra la popolazione, da obbligare il Cremlino a cambiare rotta.

È importante sottolineare che nessuno di questi obiettivi, in questa forma, appare realistico. Le sanzioni tendono a rendere le élite economiche e politiche più coese, perché aumentano ulteriormente la loro dipendenza dal principale centro di potere e centro di controllo delle risorse economiche: in questo caso il Cremlino e nello specifico Vladimir Putin. In un contesto di limitato pluralismo mediatico e politico, la colpa per i disagi economici e sociali imposti dalle sanzioni verrà principalmente attribuita a chi le impone, non alla leadership russa.

L’unico realistico obiettivo per le sanzioni è quello di ridurre materialmente la capacità delle autorità russe di continuare il proprio sforzo bellico in Ucraina. Se questo è il principale obiettivo, è importante trovare modalità per ridurne l’impatto sulla popolazione civile, sia per chi rimane in Russia, sia per i russi che abbandonano il proprio paese. È importante mantenere - e anzi favorire - quanti più contatti possibili per la popolazione russa, che vive in un regime autoritario e che non deve essere vittimizzata né tantomeno punita, benché le voci attivamente contrarie all’invasione dell’Ucraina siano sempre rimaste minoritarie. Si può certo parlare di qualche forma di corresponsabilità da parte dei cittadini russi per le scelte del loro governo, ed evidentemente di responsabilità diretta per chi ha implementato quelle scelte commettendo gravi violazioni dei diritti umani. Ma è giusto sottolineare come un principio di colpa (e punizione) collettiva sia del tutto estraneo al nostro ordinamento costituzionale, a principi etici condivisi, e alla natura stessa di diritti umani per come li intendiamo oggi.

Peraltro, e nonostante visibili manifestazioni bellicistiche, in Russia il sostegno effettivo per l’invasione è in buona parte circostanziale o passivo. Si vedono sondaggi che evidenziano come, apparentemente, vi sia ampio sostegno per il presidente russo in generale, e per l’operazione militare russa in Ucraina in particolare. Ma si tratta di risposte che devono essere contestualizzate, non solo perché oggi esprimersi contro la guerra in Ucraina è reato punibile con il carcere in Russia, ma anche perché la guerra, come rappresentata e raccontata in Russia, è molto diversa da quella che vediamo noi. C’è quindi forse sostegno per un’“operazione militare speciale per la difesa del Donbas”, mentre non vi è mai stata, né è mai stata cercata, approvazione per una piena invasione e occupazione dell’Ucraina.

Credo che questo sia un punto importante: il Cremlino era così certo di non trovare sostegno diffuso per l’invasione che piuttosto di cercare di convincere con i forti mezzi di propaganda a propria disposizione che un’invasione dell’Ucraina era buona e giusta, ha preferito insistere che non ci sia nessuna invasione. Piuttosto che cercare di convincere la popolazione che l’invasione dell’Ucraina fosse una guerra giusta, ha preferito vietare in effetti l’utilizzo della parola “guerra”. Non si celebrano le violenze ai danni della popolazione ucraina come spesso invece avviene in contesti in cui vi è sostegno effettivo per una guerra e si esalta la distruzione del nemico; i media russi di stato, continuano invece a nascondere, negare, o imputare ad altri ogni violenza contro la popolazione civile ucraina.

Queste non sono le politiche di uno stato autoritario convinto che un intervento militare contro un odiato nemico goda di ampio sostegno pubblico. Il messaggio promosso è stato del tutto diverso, ovvero, che la Russia sta cercando di salvare una popolazione vittima di violenze da parte di nazionalisti/nazisti ucraini. E che l’Occidente stia sostenendo i nazisti ucraini, dimostrando ipocrisia senza limiti, con il principale scopo di colpire la Russia, benché questa stia agendo mossa da motivazioni moralmente impeccabili.

Al di là delle esternazioni estreme che vengono pronunciate nei talk show televisivi (che in Russia, come da noi, sono per molti versi più pensati come forma di intrattenimento che non di informazione), anche gli slogan che vengono promossi dal governo sono prevalentemente difensivi… non certo “a morte gli ucraini”, o “conquistiamo l’Ucraina”, o neppure “l’Ucraina è nostra”, come invece si diceva della Crimea. Gli slogan sono piuttosto “non molliamo i nostri soldati” (#СвоихНеБросаем), non critichiamo i nostri in tempo di guerra, bisogna resistere a questa inaccettabile e ingiustificata pressione occidentale, ecc.

Accettare che la Russia abbia deciso di propria iniziativa di attaccare, uccidere, e torturare il “popolo fratello” ucraino - persone comuni - continua a sembrare semplicemente inverosimile a gran parte della popolazione russa, per molti più difficile da credere della versione alternativa promossa dal governo. In fondo, il fatto che una retorica da “guerra umanitaria” e difensiva possa essere utilizzata per creare consenso per interventi militari non dovrebbe essere poi così sorprendente per un pubblico occidentale.

Arrivo ora davvero alle mie riflessioni conclusive, riagganciandomi al dibattito sulle sanzioni. Capisco che la popolazione russa possa essere ritenuta complice delle violenze commesse in Ucraina dall’esercito russo, e che vi sia chi argomenta che la ricostruzione dell’Ucraina dovrà avvenire a spese della Russia.

Ma nonostante le colpe, innegabili e incontrovertibili, della Federazione russa, isolare il più grande paese europeo dal resto del continente non può essere una ricetta per stabilità e prosperità di lungo periodo in Europa. È quindi utile trovare modalità per attenuare l’impatto delle sanzioni sulla popolazione civile - mantenendo intatto l’obiettivo di limitare la capacità dell’esercito russo di continuare l’invasione dell’Ucraina - e di mantenere vive quante più possibili linee di contatto e interazione. Ed è importante immaginare un futuro nel quale, non appena possibile, si toglieranno queste sanzioni: non come pretesto per tirare un sospiro di sollievo e bloccare nuovamente la transizione energetica e neppure per il nostro tornaconto economico immediato, ma in primo luogo per evitare che una nuova stagione di miseria e umiliazione favoriscano il consolidamento di una Russia ancor più autoritaria, revanscista e anti-occidentale di quella che a febbraio del 2022 ha deciso di invadere l’Ucraina.

Non appena vi saranno le circostanze politiche, l’Unione europea dovrà fare il possibile per fare in modo che i paesi più direttamente coinvolti in questa guerra – non solo l’Ucraina, ma anche Bielorussia e Russia – possano sentirsi parte di una comunità di interessi con il resto del continente. Al di là del brevissimo periodo, un approccio punitivo nei confronti della Russia non contribuirà alla pace in Europa, né tantomeno alla sicurezza dell’Ucraina, che è giustamente la preoccupazione più urgente in questo momento.

Un approccio attento alle conseguenze di lungo periodo delle sanzioni e di quanto comportano è quantomai necessario per tornare ad immaginare l’Europa, tutta l’Europa, come quel continente inclusivo di pluralismo e benessere che, ne sono certo, tutti noi auspichiamo.