Avverto un senso di stanchezza, di deja vu, di parole che vengono
ripetute al vento, di bilanciamento delle retoriche pro Sardegna o anti
Sardegna. Avverto l’assenza della politica e delle istituzioni e anche
l’indignazione dei giovani. La retorica dell’essere prevale sul fare (un fare
eticamente orientato) e tutto resta come prima o addirittura ci riporta al
passato. Si predica, si inveisce, ci si addolora, ci si autoflagella, ci si
colpevolizza, si apre, sempre retoricamente, alla fiammella e alla speranza
(così per non passare per pessimisti, negativi e autodistruttivi) e poi di
nuovo al nastro di partenza, in attesa della scoperta di un nuovo viaggiatore o
di un evento drammatico o criminale da commentare. L’assuefazione prevale. E
tutto viene gabbato come normale. La Sardegna dovrebbe essere in grado di
raccontarsi e di fare da sola. D’ora in avanti racconterò, come saprò e come
potrò, la mia Sardegna, la Sardegna che mi pare, la sua “normalità”, il suo
essere mondo. Tutto il resto mi sembra chiacchiera, favola, mitologia.
La Sardegna si nasconde, si camuffa, non appare e quando appare lo fa
con il suo volto più angusto, buio, sotterraneo, ambiguo. La Sardegna è
diventata straniera a sé stessa e i sardi non sanno più, se mai lo hanno
saputo, chi sono.
La fuga è tornata attuale, oggi chi fugge lo fa con rabbia e con
irritazione, senza desiderio di tornare.
A fuggire sono anche molti che non partono, molti rimasti, ormai
stranieri in patria, solitari custodi di rovine e di memorie, cavalieri incompresi
e inascoltati. La fuga più dolente è quella di chi aveva fatto la scelta di
restare e adesso si sente impotente, deluso, si domanda, “che ci faccio qui”.
La Sardegna non vuole raccontarsi, ritrovarsi, e si consegna agli
altri, allo sguardo esterno, amico o ostile. Sempre dipendente. Così è facile
trovare alibi alla sua incapacità di elaborare immagini positive, di costruire
speranze.
Non va bene niente, ma la colpa è sempre degli altri.
Siamo (adopero con difficoltà questo noi) sempre in attesa di quello
che dicono gli altri: per applaudire, per polemizzare, per piangere, per
riconoscerci o per negarci.
Da decenni ormai, vengano votati ed eletti i più incapaci, i
traffichini, gli inetti, gli incompetenti, gli appartenenti alla zona grigia.
La zona grigia? Sarei tentato di dire che non esiste una zona grigia,
perché qui tutto è zona nera e perché chi non partecipa, vede, conosce, sa. L’ipocrisia,
l’inganno, il doppio gioco, il trasformismo sono pratiche condivise, titoli
preferenziali.
Lacrime struggenti sulle bellezze della nostra terra e la pervicace
diffusa tendenza a distruggerla. Terra bella e mare azzurro, coste
incontaminate, boschi verdi, fresche acque.
Povera, bella terra mia, violentata e rovinata da chi non fa che
esaltare le tue bellezze e intanto pensa a profitti e ad arricchimenti facili e
veloci.
Piangono le coste della Sardegna, i monti, piangono i paesi presepi
abbandonati, fuggiti, scansati dai suoi abitanti in cerca di fortuna, quando
restare significava povertà e miseria e ad esso ridotti a macerie di progetti e
di piani di sviluppo ad opera di famelici politicanti ed ingegneri, architetti
e geometri.
Non è che i sardi siano meno buoni o meno onesti degli altri: vedo
bontà e generosità vedo nelle persone che conosco, quanta forza e quanta
sopportazione. Questi aspetti migliori dei sardi vengono fagocitati da draghi,
lupi famelici, belve ferine.
Siamo o non siamo la terra delle ricchezze e delle bellezze? Perché la
nostra pietas e la nostra melanconia, le nostre solidarietà e le nostre
accoglienze, non diventano desiderio di cambiare il presente, di vivere nel
presente? Perché invece di invocare le responsabilità degli uomini del passato
tolleriamo, accettiamo, votiamo, sosteniamo i volti impresentabili di chi
governa, comanda, decide?
Ma adesso è tardi, davvero. È buio. Bisogna, davvero, deciderci. Non
ci importano le accuse che conosciamo. Non ci importa sentirci dire, come in un
disco stanco, che siamo qualunquisti, che non indichiamo soluzioni, che non
celebriamo la Sardegna normale.
Ti voglio troppo bene, Sardegna per poter stare zitto. Ti ho troppo
amata per non dirti come ti vedo e come sei. Per non sentirmi tradito. Per non
dover invitare a un’indignazione salvifica, a una ribellione civile, a
un’inversione di tendenza. Per non dire che mi chiamo fuori da questo “noi sardi”
per sentirmi parte di un “noi del mondo” come quei giovani che non possono
essere traditi neanche da chi si sente tradito.
C’è qualcuno, qui ed ora, pronto ad indignarsi, magari senza dire che
l’indignazione non basta?
Ci salverà un nuovo Risorgimento? Allo stato attuale sono
intollerabili i silenzi assordanti, le rassegnazioni interessate, le connivenze
e le complicità per pigrizia, l’incapacità dei tanti bravi e onesti sardi di
mettersi assieme, di fare una rete, una nuova “setta” aperta, una lobby
generosa che coniughi indignazione e progetto, speranza, nostalgia ed utopia,
memoria ed oblio, tolleranza ed indulgenza, accoglienza del sé e accoglienza
degli altri. Sbrighiamoci, è tardi, o diciamoci, davvero, per sempre addio.